Arrivati alle soglie di questi nuovi anni ’20, a noi di In fuga dalla bocciofila non resta più altro da fare se non domandarci se saranno abbastanza roaring o folles, sederci comodi intorno a un tavolino di un bar e rimboccarci le maniche per stilare la ormai celebre classifica dei migliori film dell’anno trascorso, secondo noi. Con la stessa penna che non molti mesi fa è stata usata per firmare l’atto costitutivo dell’Associazione Culturale In fuga dalla bocciofila, a turno tracciamo profondi solchi sui titoli che purtroppo non ce l’hanno fatta, colpendoci nell’orgoglio per non colpirci sui denti. Alcuni grandi assenti vi dimostreranno che ci sono state compravendite di voti, e ripescaggi dell’ultimo secondo e proposte bocciate per sconfitte ai dadi, ma il podio è lì, solido come un monolite, e nessuno ha potuto o voluto nulla per fermare l’Oriente. Signore e signori ecco a voi la classifica dei migliori dieci film del 2019 e casomai non vi rivedessimo, buon pomeriggio, buona sera e buon anno… già!
La Redazione di In Fuga Dalla Bocciofila
10. Midsommar – Il villaggio dei dannati
Nonostante le innumerevoli citazioni derivate dal cinema anni 70, quel cinema un po’ più sperimentale ormai divenuto stilema dell’immaginario new horror (finalmente anti torture porn e finalmente privo di rimandi gotici) Ari Aster riesce nell’intento di realizzare una pellicola originale e inquietante in un film che solo marginalmente fa paura, sicuramente più libera da compromessi rispetto a Hereditary. Aster si inventa un estetismo luminoso, lisergico e rituale che quasi quasi ci viene voglia di premiarlo con un inaspettato decimo posto, poco consono al cinema di genere che spesso viene disconosciuto come meritevole di considerazione. Il film è visibile anche nella versione director’s cut, ben trenta minuti per sprofondare un po’ di più del ritmo delle purificazioni pagane.
9. Storia di un matrimonio
Secondo alcune teorie, l’unico criterio valido per la scelta di un fiore risiede nella capacità di seccare dignitosamente. Applicando il medesimo principio alle relazioni si ottiene il dodicesimo lungometraggio di Noah Baumbach. Qui, il vate della classe media colta, borghese e metropolitana, ci ricorda che la cifra dell’amore si ha, solo e quasi esclusivamente, quando l’amore non c’è più. C’è chi dice che non si piange, e in effetti è vero. Ma è sul serio così importante piangere, solo perché al cospetto di una cosa triste? In un’epoca fondata su sensazioni violente, forse il valore del film è proprio questo: ipotizzare che alcuni processi possano avvenire anche così, con dolore e delicatezza, senza clamore.
8. L’ufficiale e la spia
Nell’anno in cui Polański presenta il suo ventitreesimo film, agguerrita la concorrenza è, direbbe lo spirito di Yoda (lamentando la mancanza del Capitolo IX in questa classifica): Scorsese, Tarantino, Allen, Baumbach, Garrone, Phillips, Joon-ho, Almodóvar, Lanthimos, Möller e relative opere, insidiano da ogni angolo la ricostruzione dell’affaire Dreyfus fatta dal regista insieme allo scrittore Robert Harris. Ma il maestro dalla sua la forza ha, e pure la sfrontatezza di titolarlo, nell’edizione francese: J’accuse, stuzzicando l’ira di parte dell’opinione pubblica che, dietro al titolo, scorge un vago riferimento alla sue vicende personali. Vero o falso? Non ci interessa qui saperlo. Al sodo, L’ufficiale e la spia è un’opera raffinata ed elegante, come poche se ne vedono. Un film storico dall’impianto classico, tecnicamente perfetto nella regia, nella fotografia, nei costumi, nelle scenografie e nei dettagli, e trova il meritato spazio tra altrettanti film validi per la capacità di raccontare un fatto umano e sociale sempre attuale: la realtà nella sua ricostruzione fatta di fatti e opinioni.
7. Dolor y Gloria
Sappiate amici che Amor y Gloria meritava di stare ben più in alto. Alla terza o alla quarta posizione per lo meno, ma è andata così. Il punto, amici, è che le classifiche sono tutto un magna magna (andatevi a rivedere chi c’era l’anno scorso al terzo posto della classifica).
Io in primis avrei dovuto muovermi per tempo, scrivere messaggi taglienti nella chat di gruppo. Insistere sui singoli redattori tramite messaggi privati. Poi avrei dovuto combattere alle riunioni di redazione. Avrei dovuto promettere voti di scambio e favori, per cercare di portare Pedro lassù dove meritava di stare. Invece alle riunioni non ci sono andato, o solo qualche volta, o in ritardo, perché è stato un periodo incasinato della mia vita. Tuttavia amici, una buona notizia: non è grave. Pedro, grazie alla sua pipetta per fumare la droga e ai suoi ricordi, se ne farà una ragione. Amor y Gloria, amici.
6. The Irishman
È buona norma che i gangster dei film di Martin Scorsese trovino la fine che meritano. Che saltino in aria girando la chiave d’accensione dell’auto, che vengano uccisi a mazzate, gettati ancora vivi nella fossa o che inizino una nuova miserabile vita sotto falso nome, raramente approdano a una vecchiaia da ospizio. Se tale sorte capita, come capita al De Niro-Irishman dell’ultima fatica (tre ore e mezzo) del regista quasi ottantenne, allora un esame di coscienza non si può fuggire, come non si fuggono l’artrite e gli spigoli del viso, ringiovanimento digitale o meno. Ma uccidere è un lavoro come un altro e ciò che che conta, alla fine, è che la porta resti un po’ aperta.
5. C’era una volta a… Hollywood
Per i tarantinati, l’attesa della violenza è violenza essa stessa? Perché qui, anche chi piange quando un leopardo si mangia una gazzella, può stare quasi tranquillo. C’è cinema nel cinema nel cinema; ci sono gli hippies (buoni? cattivi?); c’è una scena in cui Di Caprio ti guarda dritto in faccia e tu – sorprendentemente – capisci che sa recitare molto bene; c’è Al Pacino che ti spiega che la tua carriera (dai, la tua vita) sta andando in merda perchè non sei abbastanza bravo. In altre parole, non manca nulla. E poi, proprio quando non ci credi più, sangue e botte. E in sala parte l’applauso.
4. Border – Creature di confine
Se si dovesse scegliere un aggettivo per definire il film di Ali Abbasi che ha fatto sballare Cannes sarebbe certamente: strano. In moltissimi ne hanno parlato, sempre bene. In pochi l’hanno visto. Perché? Perché è un film strano. Ma bellissimo. In cui succedono cose strane. Ma bellissime. In breve, ecco di cosa parla: ci sono individui per alcuni aspetti diversi dagli altri, in parte integrati in società e in parte no. Fanno lavori umili o illegali, vengono guardati così così quando va bene, quando va male vengono temuti. Ne risulta che questi individui siano piuttosto confusi, e che alcuni possano diventare anche molto tristi o arrabbiati. Hanno un sacco di capacità pazzesche, ma invece di apprezzarle, le persone ne hanno paura. Capita che questi individui siano troll nei boschi magici e tristissimi della Svezia, ma non è poi così importante. Ricorda qualcosa?
3. I figli del fiume giallo
C’è chi dice che Jia Zhangke sia il Balzac della Cina contemporanea: il cantore delle trasformazioni sociali e culturali del suo Paese. Il suo ultimo film è un tentativo di rilettura del proprio cinema come mezzo per ripercorrere queste stesse trasformazioni. La storia di una relazione di coppia diventa la Storia di un intero Paese alle prese con cambiamenti epocali. Atto primo – La modernità è alle porte: l’ennui di piccoli gangster di provincia (Pickpocket, Unknown Pleasures), le esplosioni di violenza filtrate dai codici del cinema di genere (Il tocco del peccato). Atto secondo – L’arrivo della modernità è metamorfosi del paesaggio: anime che vagano su un pianeta alieno, che finirà per inghiottirle (Still Life). Atto terzo – La modernità è una storia d’amore senza via d’uscita (The World, Al di là delle montagne). Niente resta uguale, niente cambia davvero. Ciò che rimane sono figure intrappolate nello sguardo impietoso di una telecamera di sorveglianza.
2. Burning – L’amore brucia
Lei «sbucciava mandarini». Alla lettera cioè, toglieva proprio la buccia ai mandarini. Alla sua sinistra era posato un vaso di vetro pieno zeppo di mandarini, alla sua destra un altro vaso dove mettere le bucce – questa era la disposizione. Ma in realtà non c’era nessuno di questi oggetti. Lei prendeva in mano un mandarino immaginario, fingeva di sbucciarlo lentamente conservando alla buccia la sua forma, metteva in bocca uno spicchio per volta, ne succhiava la polpa, quando aveva finito metteva la pellicina che restava con tutte le altre nella buccia, alla fine chiudeva il tutto e lo depositava nel vaso alla sua destra. Ripeteva l’operazione piú e piú volte. A parole non sembra niente di speciale, ma a vederlo fare per dieci o venti minuti […] avevo l’impressione che a poco a poco il senso della realtà venisse risucchiato dall’ambiente intorno a me. […]
– Hai proprio talento! – le dissi.
– Figurati, è semplicissimo. Non ci vuole nessun talento. Cioè, non si tratta tanto di far finta che ci siano i mandarini, ma di dimenticare che non ci sono. Tutto lí.
(Haruki Murakami, Granai incendiati)
1. Parasite
Le case dei ricchi ti rapiscono e non ti lasciano più uscire, mentre quelle dei poveri si riempiono di feci, urina e piattole e fanno di tutto per buttarti fuori, per strada. Così, se alla fine della dark comedy di Bong Joon-ho ci resta il dubbio che la casa sia o meno un’allegoria per la vita, non abbiamo invece alcun dubbio sul fatto che Parasite metta in scena abilmente la teoria del conflitto grazie al racconto di un sottile rituale di corteggiamento tra la famiglia Kim e la famiglia Park al cui interno ribollono tanto la violenza, la passione e l’avidità, quanto la curiosità, l’amore e la tenerezza. Perché tutti non siamo altro che parassiti dello stesso immenso organismo.
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