È ad oggi possibile reperire in natura individui incapaci di servirsi da avvocati. Io sono una di essi.
Anche se venissi incarcerata nelle Filippine e, poniamo, la mia vita dipendesse letteralmente da una telefonata; anche se dovessi recuperare i risparmi di una vita dai conti off-shore di un datore di lavoro fraudolento; anche se la negligenza della sanità pubblica mi alleggerisse di una o più funzioni vitali; neanche allora, lo giuro, potrei rivolgermi a un avvocato.
Sentenza per spaccio di droga in Sri Lanka? Niente avvocati, per carità.
Furto di proprietà intellettuale? Ancora no, grazie.
Intossicazione alimentare pressoché letale in ristorante sciccoso dai refrigeratori non proprio a norma? A posto così, la risolviamo tra amici.
Un’unica volta ho preso posto, da cliente, nello smagliante studio Pantone 11-0601 TCX di un legale professionista. Era il Natale dei miei diciotto anni, e avevo festeggiato con una doppia frattura cranica e relativa emorragia interna dovuta all’impatto con un tizio lanciato a cento all’ora sull’asfalto fradicio.
Nonostante la dinamica fosse ai limiti dell’inequivocabile l’avvocato, un uomo sulla cinquantina dall’abbronzatura straordinaria, suggerì la possibilità di truccare leggermente la deposizione per ottenere il massimo vantaggio da una situazione propizia. Quando gli domandai cosa intendesse con situazione propizia si sciolse in un sorriso pieno di tenerezza, allungando verso la mia faccia deformata dai coaguli le mani aperte con i palmi rivolti verso l’alto.
E ancora: da bambini, io e G facevamo un gioco.
Consisteva, il gioco, nell’inventare vicende intricatissime e per lo più incomprensibili. Tutte terminavano in un enigma che l’ascoltatore era tenuto a risolvere.
Alcuni esempi: A e B si recano in stazione per prendere il treno, ma prima A deve andare alla toilette. B acquista una rivista in edicola, e all’atto del pagamento nota delle anatre in volo dirette a est. Una volta riuniti, A e B prendono posto in carrozza, e all’arrivo del controllore scoprono di non avere il biglietto. Stanno per beccarsi una multa, quando di colpo il controllore scompare. Cosa è successo? Indizio: c’entrano le anatre.
Oppure: A e B sono amici, sebbene alla fine neanche tanto, e incontrano C per andare in piscina. Un dettaglio di colore: C è privo di orecchie. Nello spogliatoio, alcuni anziani si asciugano i capelli con i tuboni spara-aria e osservano in cagnesco A, B e C, poi però non succede niente. Quando arrivano in vasca, tuttavia, tutti e tre non ricordano più come si nuota. Perché? Indizio: c’entrano i tuboni spara-aria.
Era un’attività, questa, ideata più che altro per i nostri padri: entrambi accademici blasonati e non granché versati nel settore intrattenimento. Il compito era partire dai canovacci pronti per raccontarci storie che, altrimenti, non avrebbero avuto idea di come inventare. Di solito la faccenda funzionava così così.
Il padre di G, un sociologo che in seguito sarebbe diventato ministro, per lo meno – c’è da dirlo – ci provava. Il mio, uomo di legge erede di svariate generazioni di avvocati, ogni volta ci si arrovellava un po’ su per arrivare sempre alla medesima conclusione: “non è giuridicamente possibile”.
Quasi più rari, ma non ancora introvabili, i soggetti restii a servirsi da analisti.
Nella scena iniziale del dodicesimo lungometraggio di Noah Baumach, Scarlett Johansson e Adam Driver, coniugi sofisticati al capolinea del loro amore, recitano una lista delle cose che preferiscono l’uno dell’altro. “Dato che state per affrontare un divorzio – suggerisce il mediatore a cui si sono rivolti – tanto vale iniziare con positività”.
Qualche settimana fa la mia terapeuta, una psicanalista junghiana di formazione psichiatrica dalle tariffe esose, mi ha commissionato il seguente esercizio: un’autodescrizione dal punto di vista di qualcuno che mi conosca a fondo e che – possibile? – mi voglia nonostante tutto piuttosto bene. “Dato che stiamo per iniziare un percorso – ha chiosato allungandomi la fattura – tanto vale farlo con positività”.
Nel film Scarlett, afflitta dal più orribile dei tagli di capelli eppure divina, dopo essersi presa la briga di stilare l’elenco opta per non leggerlo, dichiarando di sentirsi intrappolata in una situazione del genere: reciproca fellatio.
Per quanto riguarda me, mi sono direttamente rifiutata di portare a termine l’esercizio, vaneggiando circa l’ambizione di essere pagata per scrivere, cosa non troppo prossima all’erogare 80 euro l’ora per farlo. Secondo l’analista junghiana dovrei rivedere il mio atteggiamento nei confronti della terapia, e io credo che abbia ragione.
Alla fine comunque l’ho fatto: ho scritto le cose che amo di F.
L’ho fatto, immagino, per dimostrare qualcosa, anche se è complesso indicare cosa e a chi.
Ne ho selezionate, di cose, cinque, che mi pare un numero più che ok.
Eccole qui di seguito, in ordine di importanza:
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