Con C. parliamo spesso delle case dei ricchi.
Lei mi insegna che in quelle case c’è soprattutto una cosa: lo spazio.
Non i mobili di design, non le opere d’arte acquistate all’asta, non i copridivani filati a mano da tessitrici berbere con sei dita, ma lo spazio che tra questi oggetti si frappone; quello, si potrebbe dire, che li rende reali.
Facci caso, mi dice C., nelle case dei ricchi sulle riviste ci sono questi salotti enormi, vuoti. Un tavolino in vetro e acciaio con sopra un enorme posacenere pulitissimo, un divano, una poltrona all’apparenza poco accogliente ma con probabilità tremendamente confortevole, nient’altro.
Il valore del salotto non risiede nella prestigiosa casa di design italiana presso cui è stato acquistato, ma nelle aree libere che si riscontrano sopra, sotto, intorno e addirittura dentro di esso.
Con spazio, C. non intende estensione, e questo è un punto di importanza cruciale.
Le case dei ricchi possono anche essere molto piccole, piccole a tal punto da contenerne a malapena la ricchezza. A prescindere dalla vastità della superficie, ciò che le connota come case dei ricchi sarà comunque la presenza di spazio. Uno spazio denso, altamente significante, messo lì ad un unico scopo: quello di non contenere mai assolutamente niente.
C. ha letto di questa teoria da qualche parte su un libro, ma non sa dire in quale. Questo perché C. ne possiede moltissimi, di libri, che conserva in diversi scaffali, cassette per la frutta e buste di plastica, nonché sul pavimento del salotto, sui pensili del bagno e su due sedie da cucina sistemate ai lati del letto.
Al margine opposto del modello potremmo situare l’assenza di spazio. Difetto questo (nel senso di mancanza) che in base a logica spicciola assoceremo alle case dei non ricchi (non dei poveri, non degli indigenti, non del più abominevole dei disgraziati; dei non ricchi), e molto spesso in effetti è così.
Quando i genitori di mia madre acquistarono loro prima e ultima casa di proprietà, in quel passato prossimo eppure lontanissimo in cui un manovale poteva permettersi un terratetto con giardino in una zona residenziale non imperdibile ma comunque ok, avevano dei vicini che chiameremo A. e S.
A. e S. possedevano impieghi comuni e a seguire pensioni da dipendenti pubblici, una figlia in categoria protetta, alcuni gatti. Anche loro vantavano un terratetto con giardino omaggio del boom degli anni 60: una graziosa villetta a due piani in cui gli estranei, che erano tutti, venivano ammessi assai di rado e comunque con aria lievemente patibolare.
Poi un giorno S. ha avuto un arresto cardiaco, e A. è rimasto solo. Qualche mese dopo è morto anche lui. Nel giardino le tartarughe si rovesciavano sul dorso. Per rimetterle in piedi io e mia sorella scavalcavamo il muro di cinta.
La figlia si presentava di rado, e a un certo punto ci aveva consegnato le chiavi pregandoci di utilizzarle esclusivamente in caso di calamità conclamata. Il giardino cresceva incontrollato in ogni direzione, generando nei dirimpettai il terrore di microorganismi malvagi dalla resistenza inusitata, ingrassati all’ombra dei melograni fuori controllo, gonfi di frutta marcia e di animali in decomposizione intrappolati nel fogliame.
Preoccupata da eventuali rappresaglie chimiche, mia nonna decretò che era ora di dare una ripulita. Un’impresa di utilità paragonabile all’estinzione un incendio o alla prevenzione di un crollo strutturale, e che come tale implicava l’aggiramento del blocco sull’utilizzo della porta d’ingresso.
Dato che la corrente era stata staccata, entrammo alla luce delle torce dei cellulari. Come nei documentari sulle esplorazioni oceaniche, gli oggetti emergevano dal buio e ci riaffogavano al nostro passaggio. Torri di riviste allineate contro i muri, decine di biciclette dai copertoni liquefatti, le ante delle credenze schiantate da mucchi di piatti, tazzine, zuppiere, soprammobili pastorelliformi in ceramica smaltata, gli scaffali infossati dal peso di fagotti irriconoscibili divorati dalla muffa. Sui tappeti si stratificavano altri tappeti, sottobosco muschioso da cui germogliavano cataste di sedie pieghevoli, tavolini da caffè, poltrone e divani compressi in un muro compatto. In cucina dai cassetti aperti esondavano le posate, lampadari in finto cristallo si accumulavano negli angoli, il forno espettorava montagne di teglie e rotoli di alluminio. Sul tavolo coperto di bottiglie vuote e buste di carta marrone, i fossili di una cena apparecchiata per una sola persona.
Ecco una storia breve.
Per qualche anno sono stata impiegata presso una piccola agenzia di comunicazione.
Affittavamo uno studio condiviso in un palazzo del centro, con una sala riunioni dotata di lavagna, pavimenti in legno, giardino, e in generale tutte quegli optional atti a trasfigurare il posto di lavoro in uno spazio esteticamente appagante, come se fosse sufficiente ad aggirare l’insofferenza insita in qualunque genere di impiego.
Con l’arrivo dell’estate, dal seminterrato iniziò a filtrare un odore indicibile, qualcosa che risvegliava in noi immagini di bestie abbattute a sassate e consumate sul posto, sacrifici rituali, epoche che non avevamo vissuto. La proprietaria ci informò che era stato occupato da un gruppo di centroafricani senza fissa dimora, e che le esalazioni che infestavano il giardino erano i loro piatti, cucinati su un fornello a butano.
Durante diversi mesi i nostri meeting del lunedì mattina e le nostre piante da interni a ridotto consumo d’acqua si mescolarono con quel tanfo affilato, solido, invincibile.
Loro, non li vedevamo mai. Ogni tanto compariva sul portone un’ordinanza di sfratto, arrivavano tre o quattro tizi del movimento per la casa, l’ordinanza veniva rimossa e ricominciava tutto da capo, finché una mattina l’odore non c’era più.
Nessuno commentò, non chiedemmo niente alla proprietaria, continuammo a consumare salmone stufato e sformati di melanzane di fronte al computer, presi dalle scadenze del piano obiettivi.
Non sapemmo mai che fine avessero fatto, o neanche se fossero realmente esistiti.
Pochi mesi dopo diedi le dimissioni, liberai la scrivania e cambiai lavoro.
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