di Pietro Lenarda (essi vivono)
I miei vicini Yamada | I giapponesi non ridono mai
– Mai, neanche quando sono a casa? – Mai, ti dico, non ridono mai.
Paprika – Sognando un sogno | Lucido
È difficile trattenere la memoria onirica, bisogna afferrarla in quel breve istante che precede la veglia, quando il ricordo sfugge da ogni poro, lasciando un generalizzato formicolio sottocutaneo e un fotogramma da cui ripartire. Il mio è un braccio metallico, e tanto basta per seguire a ritroso, come sotto ipnosi o interrogatorio, ogni movimento del sogno, per provare a prenderne possesso prima che sfumi in una inquietudine che via via si dirada come nebbia col giorno che avanza.
Mr Long | Un ronzino vecchio e acciaccato
Davanti casa un’ambulanza si allontana a sirene spiegate mentre alcune volanti sostano accerchiate da un capannello di passanti curiosi. Nella piazzetta gli agenti cercano di sedare gli animi e ricostruire l’accaduto, rimettendo assieme i pezzi di una divergenza d’opinioni sfociata in una violenta scazzottata.
Un affare di famiglia | Il taccheggio come principio di realtà
Il titolo originale del film di Hirokazu Kore’eda che ha fatto sballare i critici al festival di Cannes è Manbiki kazoku, che in giapponese significa più o meno “la famiglia dedita al taccheggio”. Come spesso avviene, tuttavia, in italiano il titolo è stato reso in maniera piuttosto libera, facendo sparire ogni genere di riferimento ad appropriazioni indebite e tenendo invece l’unica parte che interessava alla distribuzione: la famiglia. La manovra, certamente giustificata da beghe di traduzione e marketing, ha tuttavia qualcosa di profondamente ingiusto, e ricorda quelle storie in cui il giovanotto ordinario con la testa sulle spalle rimedia il cabinato e l’impiego di lusso, mentre al ragazzetto scapestrato con un innegabile parterre di talenti non resta che sgobbare in qualche laido magazzino e sposare una rigida dieta di alcool e carboidrati. Per quanto non troppo attraente se sbattuto su manifesti 40×60, il limpido concetto di taccheggio è pur sempre intriso di un mix di creatività, adattabilità e disperazione mai eguagliato da nessun altra forma d’arte e/o pratica sportiva, ed è triste saperlo iniquamente estromesso dalle bacheche dei cinema italiani. In un intempestivo moto di contrappasso ecco dunque quattro storie di taccheggio come ciò che in effetti è: autorappresentazione, atto performativo, rivendicazione estetica, affermazione sociale e in una parola principio di realtà.
An | L’apparenza inganna
Se mai dovesse capitarvi di andare in Giappone, diffidate da chiunque vi offra un dolce, perché quello che potrebbe avvenire è il seguente. Vi ritroverete tra le mani un oggetto assimilabile quasi in tutto e per tutto a un biscotto, un biscotto quasi certamente molto carino, con buona probabilità modellato in forma geometrica o di animale, deliziosamente dorato e morbido al tatto, sufficientemente compatto da promettere di non sbriciolarsi al primo morso ma allo stesso tempo abbastanza soffice da lasciare immaginare con una sfumatura quasi erotica il momento in cui i vostri denti vi affonderanno. Uno scenario meraviglioso.