di Pietro Lenarda (essi vivono)
Era l’anno in cui Kim Jong Un minacciava un giorno sì e l’altro pure di distruggere l’isola di Guam.
Erano in Giappone da più di tre settimane e il caldo tropicale, insopportabile i primi giorni, cominciava a essere tollerabile al corpo, si era abituato a quel continuo sudare.
Il viaggio sembrava ormai una fuga senza fine, estenuante, frenetica. La marea di gente aveva quasi completamente dissolto e rimescolato quel debole legame che li teneva ancora attaccati.
Si rincorrevano stancamente, senza trovarsi: una fuga da tutti, una fuga l’uno dall’altro, una fuga da se stessi. Anche l’eterna frustrazione, il senso di inadeguatezza che provava standole accanto, ormai era stato soppiantato da uno smarrimento totale in quel paese alieno, lontanissimo da tutto e da tutti.
La sensazione che aveva era di essere giunto alla fine del mondo, come se la immaginavano i marinai di Colombo. La terra finisce in una specie di enorme cascata nel vuoto. Si era abituato a quel senso di vertigine.
Le profetiche pubblicità dell’ ultimo film di Godzilla si vedevano per tutta la città.
A Kyoto era stato annunciato un tifone. Un vento caldo faceva sbattere tutto, i cavi dei tralicci sibilavano di elettricità, tutto chiuso, nessuno in giro, tutto sprangato: dicono di correre a casa e chiudersi dentro, in attesa che il tifone passi. Nella camera di albergo mangiarono in silenzio, al buio, con le finestre chiuse, qualcosa preso di corsa al Seven Eleven, stanchi, spossati da tutti quei giorni di tensione, di incomprensione, si addormentarono sfiniti.
E dormendo fece un sogno.
Nel sogno si trovava su una nave in mezzo al mare, il tempo era mite e calmo e la nave procedeva al largo. Questa nave era molto grande e affollata e si accorse che vi erano tutte le persone che conosceva e aveva conosciuto fino ad allora, soprattutto amici del liceo. Era una festa, piena di gente e musica e tutti si stavano divertendo.
Riconobbe Y., come se lo ricordava tanti anni fa, un selvaggio richiamo, era in mezzo alla gente e scherzava, beveva. Bruciava senza ritegno e dava esempio senza rimpianti.
Cari vecchi eccessi: ma dove eravate finiti? Y. era un po’ il capitano della nave. Nelle sale interne riconobbe amici che non vedeva da chissà quanto, ma non poi da tanto, semplicemente era in una fase diversa e aveva altre cose in ballo, doveva trasferirsi a settembre, non ci si vedeva più da un po’.
In fondo in fondo vide un ragazzo seduto da solo, che non rideva, non parlava con nessuno, guardava fuori dalle vetrate. Lo riconobbe dopo un po’. Era B. Andò subito da lui a fargli mille feste, chiedendogli dove era finito, tutti lo cercavano da mesi e aveva fatto preoccupare tutti. Gli rispose “ti voglio bene”, come gli aveva detto l’ultima volta che si erano visti, e continuò a guardare fuori. E allora comprese che quella non era una festa, era il funerale di B., come era successo qualche mese prima, e gli invitati erano i partecipanti al funerale. Era stato il giorno del suo trentesimo compleanno.
Si svegliò, il tifone era passato, lei dormiva ancora rivolta contro il muro, chiusa e inaccessibile nei suoi sogni e fu invaso dalla tristezza, un senso di nostalgia e malinconia lo dominava dalla testa ai piedi.
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