È difficile trattenere la memoria onirica, bisogna afferrarla in quel breve istante che precede la veglia, quando il ricordo sfugge da ogni poro, lasciando un generalizzato formicolio sottocutaneo e un fotogramma da cui ripartire.
Il mio è un braccio metallico, e tanto basta per seguire a ritroso, come sotto ipnosi o interrogatorio, ogni movimento del sogno, per provare a prenderne possesso prima che sfumi in una inquietudine che via via si dirada come nebbia col giorno che avanza.
***
Sono in un parcheggio, che è anche un parco. Forse è il parcheggio di un parco o un parco adibito a parcheggio. Non vedo l’asfalto, ma solo il foliage, su cui cammino a passo svelto per raggiungere un’auto con cui fuggire. Salgo, metto in moto e mi avvio verso un’uscita per lasciarmi alle spalle il parco-parcheggio, ma la macchina si blocca. Accelero, ma quella ondeggia a destra e sinistra, come fosse ancorata o fosse sopra una pozza di fango. Mi volto per capire che succede, e vedo… vedo Robocop (!).
Sì, è lui che trattiene l’auto – nel frattempo capisco di essere in una limousine, vista la distanza che c’è tra il posto di guida e la mano sinistra del cyborg. Ha afferrato il montante di uno sportello posteriore.
Premo sull’acceleratore. La macchina continua a ondeggiare. Premo ancora. La forza bruta del motore divelte il braccio di Robocop e la limousine schizza via con l’arto metallico attaccato allo sportello posteriore. Un fragore di lamiere stracciate, contorte, accartocciate, distrutte, riempie la scena.
Seguo la traccia del suono. Dove l’ho già sentito? Davanti al lavandino di casa. Sono lì, in piedi. Osservo il detersivo colare dentro l’acquaio e perdersi nello scolo. Viene fuori dal barattolo di plastica riverso nel ripiano della cucina. Il contenitore metallico che, fino a poco prima, era appeso alla parete sopra il lavandino e in cui tenevo spugnette e detersivo, non è più al suo posto. È dentro l’acquaio e galleggia in un blob verde che piano piano aumenta di volume
Lo tiro fuori e lo riappendo. Faccio scorrere l’acqua per mandare via il detersivo e il blob si tramuta in schiuma, che sborda e cola lungo gli sportelli, sotto il lavello, sul pavimento.
Pulisco. E penso: forse la mente ha rielaborato e trascritto il frastuono della caduta del contenitore metallico nella scena della mia fuga da Robocop. È possibile, sembra reale.
Dalla cucina mi sposto in terrazzo, senza apparente motivo o necessità, e vedo la donna che fuma – la donna che fuma è una donna che abita nel palazzo di fronte al mio, qualche piano più in alto. Quando mi affaccio lei è sempre lì, di spalle, poggiata alla ringhiera del suo balcone, il volto chino sullo smartphone e uno sbuffo di fumo che di tanto in tanto si eleva oltre la sua corta capigliatura.
Ora la città dorme, non emana segni di vita, suoni, ma lei è lì: una sagoma nera ritagliata su una luce artificiale arancione, quella di casa sua. Certo che sia, come sempre, di spalle, la guardo, ma un pallino rosso che si infiamma all’altezza del suo volto – un’intensità che cresce nel momento in cui aspira e sfuma nel momento in cui allontana la sigaretta dalla bocca – trapassa la mia sicurezza, lasciando in quel gesto un perturbante senso di inquietudine che mi esplode nel petto e si diffonde brulicante fino alle profonde e assopite periferie del corpo. Sono ancora dentro.
D’istinto scavalco la ringhiera e salto giù. È solo un piano, mi dico, ma sento di averne attraversato almeno dieci.
Quando atterro, sono in un parcheggio, che è anche un parco. Forse è il parcheggio di un parco o un parco adibito a parcheggio, o più semplicemente il giardino del vicino.
La donna che fuma è sempre lì, la vedo ancora. I pallini rossi sul suo volto sono diventati due. Salta giù anche lei, e un fragore di lamiere stracciate, contorte, accartocciate, distrutte, riempie la scena.
Capisco chi è.
Ora dovrei raggiungere l’auto parcheggiata e correre via, ma non lo faccio. Di mia volontà, resto fermo. Sono fuori.
***
Quella mattina, dopo essermi alzato, in piedi davanti al lavandino di cucina ho osservato il detersivo colare dentro l’acquaio e perdersi nello scolo. Il contenitore metallico che, fino a poco prima, era appeso alla parete sopra il lavandino, era cascato. La vicina di casa era sempre lì, di spalle, poggiata alla ringhiera del suo balcone, il volto chino sullo smartphone e uno sbuffo di fumo che di tanto in tanto si sollevava oltre la sua corta capigliatura.
Rispondi