Alzarsi senza sveglia
prima alle sette e mezza
poi poco dopo le otto e
in breve
alle nove, o anche più tardi.
Pretend it’s a city | Tiscali
Seduta in uno di quei bar vecchio stile che esistono solo nei film di Scorsese, una tizia dall’acconciatura trapezoidale sposta il discorso su come, nel momento in cui lasci New York o decidi di passare un po’ di tempo altrove, non riesci a capacitarti di quanto la vita sia più facile. “È una città così impossibile che quando mi chiedono perché ci abito non so rispondere. Quello che so è che disprezzo chi non ha il fegato di farlo”.
Un affare di famiglia | Il taccheggio come principio di realtà
Il titolo originale del film di Hirokazu Kore’eda che ha fatto sballare i critici al festival di Cannes è Manbiki kazoku, che in giapponese significa più o meno “la famiglia dedita al taccheggio”. Come spesso avviene, tuttavia, in italiano il titolo è stato reso in maniera piuttosto libera, facendo sparire ogni genere di riferimento ad appropriazioni indebite e tenendo invece l’unica parte che interessava alla distribuzione: la famiglia. La manovra, certamente giustificata da beghe di traduzione e marketing, ha tuttavia qualcosa di profondamente ingiusto, e ricorda quelle storie in cui il giovanotto ordinario con la testa sulle spalle rimedia il cabinato e l’impiego di lusso, mentre al ragazzetto scapestrato con un innegabile parterre di talenti non resta che sgobbare in qualche laido magazzino e sposare una rigida dieta di alcool e carboidrati. Per quanto non troppo attraente se sbattuto su manifesti 40×60, il limpido concetto di taccheggio è pur sempre intriso di un mix di creatività, adattabilità e disperazione mai eguagliato da nessun altra forma d’arte e/o pratica sportiva, ed è triste saperlo iniquamente estromesso dalle bacheche dei cinema italiani. In un intempestivo moto di contrappasso ecco dunque quattro storie di taccheggio come ciò che in effetti è: autorappresentazione, atto performativo, rivendicazione estetica, affermazione sociale e in una parola principio di realtà.
Don’t worry | Rooney Mara, le sigarette nelle arene estive e Feuerbach
… sono innamorato di Rooney Mara
Dio esiste e vive a Bruxelles | Piangere al cinema
Il motivo per cui mi piace piangere al cinema è che al cinema si piange sotto gli occhi di tutti, mentre nessuno può vederti. Da un lato il bisogno di riservatezza inculcato da anni di placide passeggiate sui verdi pascoli della buona società, dall’altro il desiderio ossessivo, impellente e imperante di essere compresi, compatiti e amati da ogni singolo essere vivente in soggiorno su questo piccolo e azzurro pianeta. Due spinte diametralmente opposte, soddisfatte contemporaneamente da un unico gesto, plateale e segreto, sacro e sfacciato, al gusto burro, bollicine e grassi saturi.
Junun | Suonala ancora, Paul
Nel quindicesimo secolo il condottiero Rao Jodha, sovrano di una città del nord dell’India chiamata Mandore, per ragioni di sicurezza decise di spostare la sua capitale di qualche chilometro. Nove, per l’esattezza. Fondò così un centro che oggi è conosciuto col nome di Jodhpur, il secondo più popolato del Rajasthan, e sfruttando un’altura nelle vicinanze fece erigere la fortezza di Mehrangarh (in sanscrito “fortezza del sole”), un mastodonte che si estende per cinque chilometri, con mura alte trentasei metri e larghe fino a ventuno. Per accedervi, bisogna attraversare sette portali. All’interno, una serie di palazzi magnificamente decorati, dai nomi evocativi: Palazzo delle Perle, Palazzo degli Specchi, Palazzo dei Fiori. In questo luogo è stato girato Junun, il nuovo film di Paul Thomas Anderson.
The Lobster | La sindrome da Black Mirror
The Lobster, l’ultimo lavoro del regista greco Yorgos Lanthimos, ha vinto il Premio della giuria al Festival di Cannes e parla di una società in cui le persone sole vengono internate in una specie di hotel dove hanno a disposizione quarantacinque giorni per innamorarsi, altrimenti saranno trasformate in un animale a loro scelta. Consapevole dei livelli di stress che un soggiorno del genere può generare, l’attento personale della struttura si premura di fornire agli ospiti momenti di svago e intrattenimento tra cui: punizioni corporali, balli del mattone e battute di caccia all’uomo con fucili a tranquillanti. Tutto questo solo nei primi dieci minuti di film, cosa che rende piuttosto facile immaginare il verso che prenderanno i successivi centootto.
Fantastic 4 | A real human being
– Avvertenza: quello che state per leggere, se avete davvero intenzione di leggerlo, andrebbe accompagnato dall’ascolto di “A real human being” dei College & Electric Youth. Un pezzo che probabilmente conoscerete, in parte perché è molto bello e in parte perché era nella colonna sonora di Drive – Mi sveglio di soprassalto con l’orribile sensazione di essermi persa qualcosa. Infatti mi sono persa almeno la prima mezz’ora di film. Cazzo. Voci e suoni, amplificati all’inverosimile dall’impianto audio che rimbomba nella sala deserta, irrompono senza pietà nelle mie orecchie insieme a uno strisciante senso di colpa per aver abbandonato S. nella visione di quello che potrebbe facilmente conquistare il podio di film più inutile dell’anno.
Città di carta | Teen movie con mia madre
Per la prima volta da quando, sotto Natale, mi portava a vedere Il re leone o qualche altro film Disney che poi è diventato Pixar e che poi ho deliberatamente iniziato a disertare, vado al cinema con mia madre. Sono cambiate molte cose dai pomeriggi in cui mi sistemava di peso su poltrone che sembravano gigantesche, principalmente l’estetica e l’odore delle sale, anche se non solo. Vent’anni più tardi, non è tanto importante che film stiamo andando a vedere, ma quali argomenti cercheremo di evitare grazie ad esso.