The Lobster, l’ultimo lavoro del regista greco Yorgos Lanthimos, ha vinto il Premio della giuria al Festival di Cannes e parla di una società in cui le persone sole vengono internate in una specie di hotel dove hanno a disposizione quarantacinque giorni per innamorarsi, altrimenti saranno trasformate in un animale a loro scelta. Consapevole dei livelli di stress che un soggiorno del genere può generare, l’attento personale della struttura si premura di fornire agli ospiti momenti di svago e intrattenimento tra cui: punizioni corporali, balli del mattone e battute di caccia all’uomo con fucili a tranquillanti. Tutto questo solo nei primi dieci minuti di film, cosa che rende piuttosto facile immaginare il verso che prenderanno i successivi centootto.
Chiaramente, c’è a chi questa storia di stare in coppia per forza non va troppo giù, ed ecco quindi il blocco d’opposizione: i solitari. Questi individui, a differenza di come si potrebbe immaginare, non sono i paladini dello scegliere liberamente se e con chi condividere la propria vita, ma un pugno di montanari imbacuccati in k-way mimetici che a loro volta – quando non scappano dai proiettili soporiferi delle battute di caccia o si dilettano in sessioni di silent disco – praticano rituali punitivi creativi (dove il castigato sarà chiunque manifesti un qualsiasi genere di desiderio/contatto/sentimento amoroso), intimidazioni, minacce e volendo anche omicidi. Due schieramenti, due poli distopici ugualmente dittatoriali. Non c’è salvezza, e soprattutto non c’è nessuno che la desideri veramente. Centodiciotto minuti. Ripeto, centodiciotto.
Avete mai visto Black Mirror? È una serie tv inglese di grande successo ambientata in un qualche genere di futuro prossimo che in due stagioni e sei puntate in totale (più lo speciale di Natale) mette su una serie di scenari orrorifici sul tema “come l’evoluzione tecnologica finirà per ridurci”. Critica estasiata, pubblico delirante, un Emmy. Un prodotto tutto sommato interessante, ma anche tremendamente angosciante, sadico e violento, dove latita ogni barlume di umanità o senso dell’umorismo. Anche qui: pubbliche umiliazioni, violenza psicologica, torture e morte a profusione, ma senza l’ombra di un Terminator che schiacci qualcuno sotto una pressa idraulica sibilando “Hasta la vista baby!”, in un’escalation ansiogena che verso le ultime puntate inizia a diventare paradossale, come se negli studi di Endemol (la società olandese che produce il format) ci fosse uno squadrone di boyscout che passa il tempo a estrarre da un’urna gigantesca migliaia di palline contenenti tutte le possibili combinazioni di traumi, disastri, orrori, incomprensioni e via dicendo.
In sala fa freddo, e mi viene in mente che forse stiamo sviluppando un qualche genere di perverso gusto per la sofferenza, quella che non offre molto di più se non l’osservazione quasi pornografica di se stessa. La gente smania sulle poltrone scomode posizionate in ogni angolo per far sedere il pubblico in eccedenza, si lamenta dell’aria condizionata, ma rimangono comunque tutti immobili per sapere come andrà a finire, o solo per vedere se nei lunghissimi minuti che rimangono salterà ancora qualche arto, organo, se qualcuno sparerà a qualcun altro o se la situazione potrebbe avere altro margine di peggioramento. Poi escono, buttano lì qualche commento, e si disperdono alla ricerca di una pizza.
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