– Avvertenza: quello che state per leggere, se avete davvero intenzione di leggerlo, andrebbe accompagnato dall’ascolto di “A real human being” dei College & Electric Youth. Un pezzo che probabilmente conoscerete, in parte perché è molto bello e in parte perché era nella colonna sonora di Drive –
Mi sveglio di soprassalto con l’orribile sensazione di essermi persa qualcosa. Infatti mi sono persa almeno la prima mezz’ora di film. Cazzo. Voci e suoni, amplificati all’inverosimile dall’impianto audio che rimbomba nella sala deserta, irrompono senza pietà nelle mie orecchie insieme a uno strisciante senso di colpa per aver abbandonato S. nella visione di quello che potrebbe facilmente conquistare il podio di film più inutile dell’anno.
L’ho conosciuto qualche anno fa perché di fatto è sempre in tutti i posti dove sono io. Se vado al bar, lui c’è. Se vado al cinema, lui c’è. Se vado in libreria, lui c’è. Se vado a rivendere i manuali del liceo sulle bancarelle al mercato, lui c’è. E forse se li compra pure. S. arriva da lontano, è un bell’uomo d’altri tempi, flemmatico e paziente. Come molti fa un lavoro noioso, ma questo non lo rende meno interessante. E poi c’è questo fatto, che S. è un supereroe.
Dalle righe precedenti si potrebbe intuire – a torto – che il superpotere di S. sia quello di materializzarsi in ogni luogo egli desideri, o magari anche di essere ubiquo. Non è così, ma non c’è pericolo di rimanere delusi: quello che S. è in grado di fare è molto, molto più stupefacente. Fin dalla nascita, S. ha la straordinaria capacità di rendere improvvisamente ipercoscienti le persone.
Con la sua sola presenza, ispira naturalmente complesse riflessioni sull’io, la vita e le motivazioni profonde del proprio agire a chiunque abbia la sventura di trovarsi nel raggio di qualche decina metri da lui. Com’è facile immaginare, la faccenda non gli ha certo semplificato la vita. Ipercoscienza in spogliatoio post-calcetto. Ipercoscienza al posto di blocco il sabato sera. Ipercoscienza nella sala d’aspetto del medico, alle poste, al concerto di quel tale cantautore noto-per-alcuni-ma-non-abbastanza-noto-per-altri.
Un incubo, forse più per lui che per il prossimo, e avrebbe anche potuto far finta di niente S., strappare al destino quell’infanzia che tanto presto gli è stata portata via in favore di un isolamento coatto, allontanarsi fischiettando dal luogo del delitto facendo finta di niente, additando come untore un gatto o un anziano di passaggio. Ma lui no, niente. Perché una cosa dai suoi colleghi S. l’ha imparata: da grandi poteri derivano grandi responsabilità.
Così S., con coraggio e abnegazione ha prima preso atto del e poi accettato il suo dono, rifiutando il giudizioso invito dei genitori a rimanere in disparte, a farsi passare per uno di quei ragazzini solitari che da grandi diventeranno bravissimi parrucchieri. Costretto ben presto a fuggire dalla madrepatria, un luogo tanto grazioso quanto ostile verso ogni forma di originalità, è approdato qui nascosto in un carico di arance. Era ancora un bambino, e ha dovuto imparare a cavarsela da solo.
Non è stato facile, ma ce l’ha fatta, e per tutta ricompensa oggi l’ho portato a vedere Fantastic 4. Dato che continuavamo a incontrarci ovunque tanto valeva ufficializzare la cosa, quindi eccoci qua a fissare annoiati e assonnati lo schermo, e non serve davvero tutta questa ipercoscienza per renderci conto che potremmo alzarci e andarcene in qualsiasi momento a fare qualcosa di più edificante, ma rimaniamo comunque immobili sulle poltrone a disperarci.
Dimenticavo di dire che, col tempo, abbiamo scoperto che i poteri di S. sono del tutto inefficaci su di me. O forse non lo sono, ma semplicemente la differenza prima/dopo non si nota granché. Credo che in parte c’entri qualcosa il fatto che anch’io sono un supereroe, o una supereroina se preferite, ma di questo parleremo un’altra volta.
Finita la tortura, usciamo dalle porte a vetri e ci troviamo davanti un gruppo di pakistani o presunti tali che se le danno di santa ragione. Succede spesso qui, ma stavolta fanno proprio sul serio. Ci sono colli di bottiglia branditi come alabarde, denti che volano e una claque desiderosa di sangue che grida parole incomprensibili per chi è poco versato nelle lingue. A parte loro, siamo le uniche due anime vive in tutta la strada.
Prima di avere il tempo di girare i tacchi e chiedere asilo politico nell’atrio del cinema, il bigliettaio, un tizio non troppo simpatico, abbassa con violenza la serranda dietro di noi e spegne la luce dell’insegna. Disturbata dal frastuono del metallo sull’asfalto, la carneficina si blocca. Di colpo abbiamo una trentina di occhi addosso che ci scrutano nella semioscurità. I cocci di vetro brillano sospesi nell’aria, c’è un silenzio innaturale, la tensione va fuori controllo. E poi succede.
Lentamente, il capannello di invasati si disperde. L’aura di S. ci ha messo qualche secondo a raggiungerli, ma appena li ha inglobati dentro di sé è stata inesorabile. Li guardiamo tornarsene a casa, lasciando i denti ormai inutili sul marciapiede, trascinando le ciabatte di gomma da piscina, troppo presi dall’improvvisa realizzazione della propria stupidità per fare qualsiasi altra cosa che non sia battere in ritirata.
Guardo S. “Combattere il crimine me l’immaginavo diverso” – gli dico. “Dentro le banche non mi ci fanno più entrare – risponde – faccio quello che posso, e comunque non dipende da me”. “Almeno tu non hai bisogno di andare a scomodare dimensioni parallele, di mettere tutine aderenti o di farti cucire addosso un logo che sembra quello di una lavastoviglie – lo rassicuro – Sarà meno divertente, ma tanto le cose divertenti io non le ho mai davvero capite”.
Io e S. siamo amici, e spero che lo saremo per molto tempo ancora.
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