La notte in provincia è più densa, pensava, più lenta. La luce della scrivania, ingoiata dalla finestra, spariva lasciando il piccolo giardino al buio. Il quaderno aveva una copertina in cartone e delle righe rosse e blu che si alternavano sulla carta ruvida. Da piccolo controllava fino all’ultima pagina che non ci fossero errori di ritmo: due blu, una rossa. A volte lo faceva ancora, per nostalgia.
Scrivo perché ho paura di non essere abbastanza, scrivo per giustificarmi, giustificare lo spazio che occupo, l’aria che consumo, i soldi e il tempo spesi per crescermi e insegnarmi tutto quello che so. Per ripagare un debito i cui interessi crescono all’infinito e che nessuno potrà mai estinguere. Scrivo perché è un altro modo di essere buono, intelligente, ovvero degno di essere amato: per non essere uno qualunque, mediocre, senza speranza. Scrivo per gli altri, per essere letto, perché qualcuno applauda e mi dica quanto sono bravo.
Il posacenere era colmo di mozziconi e fiammiferi usati, talmente gonfio che svuotarlo era impossibile. Ad ogni riga si accendeva una nuova sigaretta per silenziare la voce insistente che gli chiedeva di strappare tutto: il quaderno aperto davanti a lui, gli altri allineati sullo scaffale, pagine e pagine di inchiostro sprecato, inutile.
Scrivo anche perché ho l’impressione che sia tardi, che tutte le migliori occasioni siano dietro di me, che niente potrà più davvero succedere. Scrivo perché sono in ritardo mentre tutti si innamorano, si sposano, fanno dei figli che ormai hanno quasi l’età che avevo io quando conobbi i loro genitori.
A volte non riusciva a controllarsi e scattava in piedi, prendeva i quaderni e li gettava contro il muro, uno dopo l’altro: trenta lanci che facevano rimbombare i tramezzi in cartongesso oltre i quali dormivano i vicini. Era arrivata la polizia e aveva dovuto promettere che mai, mai più sarebbe successo. Si mordeva le mani, stringendo fino a che un punto rosso non appariva appena sopra al pollice.
Scrivo perché non ho nient’altro che questo per ascoltare quella voce che mi sembra l’unica rimasta a non recitare. Per non urlare in strada, non urlare in faccia agli amici quanto poco mi amino, come in realtà io sia marginale nelle loro vite. E ovviamente scrivo perché vorrei pubblicare un libro che piaccia a tutti: ai critici severi e al grande pubblico e, da quel trono, guardarmi intorno finalmente soddisfatto e sereno. Per avere un lettore a cui le mie parole fanno compagnia in una serata fredda. Scrivo per essere soli in due, a decine di chilometri di distanza.
Poi saliva in bagno e si disinfettava con un eccesso di zelo, acqua ossigenata, mercurio cromo, euclorina, annegando la flora cutanea in un’apocalisse sanitaria ingiustificata. Ma lo specchio era sempre lì, pronto a giudicarlo, a fargli scoprire una nuova mancanza che non sapeva dire da dove arrivasse: la stempiatura più alta, quella nuova ruga, le occhiaie scure. Allora a fatica si tratteneva dal prenderlo a cazzotti e spegneva semplicemente la luce, rimanendo in piedi davanti al lavandino ad aspettare che il tempo passasse. Scendeva al buio le scale, guidato dalla memoria e vedeva in fondo al corridoio la luce della scrivania, così flebile che sembrava uno scherzo, un dubbio. Si sedeva di nuovo.
Scrivo per essere letto da te che riesci a capirmi, che conosci tutte le mie parole: quelle scritte e quelle che restano fra una riga e l’altra, senza avere il coraggio di apparire, ma che intuisci perché mi conosci, senti proprio quello che sento io. Scrivo per essere compreso, per sapere che qualcuno, là fuori, mi vede fino in fondo e sente quello che sento io, esattamente. Per non essere solo.
Appena poggiò la penna alla carta, sentì improvvisamente la colonna d’aria che attraversava la troposfera, la mesosfera, la termosfera e l’esosfera, premergli sulle spalle e tenerlo fermo al suo posto. Si incurvò sotto quel peso di cui non doveva nemmeno accorgersi e strinse le palpebre.
Fuori, era di nuovo giorno.
Rispondi