Scrivere del Torino Film Festival rischia di essere un’operazione votata al fallimento. Principalmente perché si parlerà di film che forse non arriveranno mai nelle sale. O di film che se anche ci arriveranno è improbabile che le persone andranno a vedere. O se infine qualcuno dovesse anche andare a vedere si sarà già dimenticato di tutto quello che io possa scrivere.
Tuttavia ho deciso di farlo ugualmente. Prima di tutto perché niente è nobile all’infuori del fallimento. Mi illudo inoltre che se la mia scrittura è davvero buona, e non è detto che lo sia, una persona potrebbe leggere il mio testo a prescindere che abbia visto o meno il film. A prescindere che lo vedrà mai. A prescindere di tutto quanto.
Giorno 1
Il sabato ha iniziato a piovere fin dalla mattina, anzi dalla sera prima, e ha continuato per tutto il giorno. Il piano oggi è di vedere 4 film, cominciando alle 9 e 30, poi doppietta nel pomeriggio, per poi concludere in seconda serata. Diana ha trovato un appartamento su booking che è esattamente a metà strada tra il cinema Massimo e il cinema Reposi. Un appartamento in cui verremo a fare a volte delle pause o a mangiare o a dormire.
L’apprendistato di Davide Maldi
Opera seconda del regista Davide Maldi presentato a Locarno, il film parla di un ragazzo che frequenta una scuola per camerieri di alta formazione. Il protagonista adolescente sembra Rimbaud e proviene da un contesto rurale. Lungo tutta la durata del film lo vediamo e lo udiamo (vi è una cura meticolosa del suono) opporsi strenuamente alle ferree regole del collegio. “Mi annoio”, “la gente mi fa schifo”, “penso solo al presente” sono alcune delle risposte che il protagonista dà ai suoi insegnanti. Da spettatori (e da adulti) viviamo sensazioni contrastanti: a tratti vorremmo che il ragazzo mettesse un po’ la testa a posto e accettasse le regole; dall’altra desideriamo solo che il protagonista continui per sempre a sovvertire le stupide leggi e non diventi mai grande. Se è vero, come dice Diana, che l’adolescenza è l’unico tema che ha veramente senso indagare, questo film è importante e del regista ne sentiremo ancora parlare. L’apprendistato è, a mio avviso, un film didascalico come lo è un mito greco.
Il gabinetto del Dottor Caligari di Robert Wiene
Ci sono dei film che sono dei classici, che se sei appena un po’ un cinefilo devi aver visto. Uno di questi è certamente il Gabinetto. Come si intuisce già da questo preambolo io non l’ho mai visto. A mia timida difesa posso dire che l’assoluto è impossibile, e che anche chi si dichiara tuttologo in certe specifiche tematiche avrà comunque alcuni titoli che in verità no, non ha mai visto. Per questo abbiamo deciso con Diana di rimediare a questa lacuna, perché abbiamo scoperto che in effetti anche lei, come me, non l’ha mai visto. Bene. Se non che siamo andati al cinema, ma io mi sono addormentato tra la fine del terzo atto e l’inizio del quinto.
Synonymes di Nadav Lapid
Film di regista israeliano Nadav Lapid che ha vinto all’ultimo festival di Berlino, presentato a Torino nella rassegna Onde. Onde è quella rassegna che vuol dire proprio questo: movimento, migrazioni, e cambiamento. O almeno noi lo abbiamo interpretato così, perché la spiegazione delle singole sezioni non è scritta da nessuna parte. Due parole sul film. Gli attori sono tutti bravi e belli, visti già in altri film francesi che sul momento non ci veniva in mente (poi siamo andati a vedere su google ed erano come minimo tre o quattro). A tratti il film sembra quasi una campagna pubblicitaria di COS. La voce fuori campo sembra ricordarci che la Nouvelle Vague è viva e lotta insieme a noi. Parigi anche è viva, sebbene sia un vero caos di ristoranti per turisti e angoli per farsi dei selfie. Il film è bello, ma mi è sembrato che ci fosse dentro troppa roba, ha detto Diana, e in effetti è così. Ci sono la scrittura, la lingua madre e quella conquistata, l’Iliade, il gender fluid, Israele, l’Europa, l’accoglienza, e forse a pensarci bene queste cose stanno tutte insieme, ma forse sono troppe.
Le choc du futur di Marc Collin
Dopo mezz’ora ho finto un mal di testa e me ne sono andato. Lasciamo perdere.
Giorno 2
Il piano per la giornata di domenica (qui continua a piovere senza accennare a smettere) è di vedere tre film e concederci una cena fuori per festeggiare. L’idea di fondo che anima il soggiorno a Torino durante i giorni del festival è una: annullare il tempo tramite la visione prolungata di film.
I cinema sono strapieni fin dalla mattina, odore di mandarini e deodoranti stick (no vapore, no alcool). Abbiamo mangiato a pranzo al Circolo dei Lettori che per uno come me che si interessa di letteratura e scrive è tipo La Mecca: oggi ci sono stato per la prima volta in vita mia e devo dire che mi ha lasciato (bella struttura, niente da dire) abbastanza freddino.
Algunas Bestias di Jorge Riquelme Serrano
Film cileno che concorre per il premio principale (se gli altri film sono del livello de Le choc du futur, allora questo vincerà senz’altro il Festival). Non un gran che. Il film tratta un topos che è riassumibile così: prendi della gente (magari una famiglia) mettila in un posto isolato, poi guarda che succede. Hobbes avrebbe aggiunto: e vedrete il vero volto dell’uomo. In generale mi è sembrato per tanti motivi un film fuori tempo massimo: fin dalla scelta dei protagonisti che sono dei ricchi cileni, e che sembrano quasi dei russi latifondisti Ottocenteschi (probabilmente la società cilena è proprio così). Non ho molto da dire su questo film, gli darei un sei politico. Gli attori sono bravi (Alfredo Castro su tutti) e a tratti sembrano recitare senza un vero e proprio copione.
Vitalina Varela, di Pedro Costa
Aspettative molto alte per questo film che ha vinto a Locarno. Diana prima di entrare mi ha detto: ti preannuncio (io non voglio mai sapere nulla prima di vedere un film) che questo dura molto. Bene, le ho riposto, sono pronto. Il film parla di una donna che da Capo Verde arriva in una Lisbona dove è sempre notte, perché è morto suo marito. Film sul lutto, sul dolore, che dire “ostico” è riduttivo. Anzi: è un eufemismo. A Diana non è piaciuto. Io, forse complice l’avvertimento di Diana che sarebbe stato lungo, ero pronto che durasse sette ore, quindi mi è passato tutto sommato in fretta. E mi è piaciuto moltissimo. Ripeto: è un film ostico, ma se mai qualcuno di voi decidesse di provare a vederlo, vi imploro di tenere duro: la scena finale ripaga per gli sforzi fatti.
Ms. white light, di Paul Shoulberg
Commedia americana abbastanza divertente, concorre per il premio. Se prima c’erano le commedie stile “Sundance”, ora ci sono le commedie stile “Netflix”. Sono commedie abbastanza intelligenti e ciniche (senza esagerare), i protagonisti sono un po’ sfigati e gender-fluid, alla fine finisce tutto bene.
Curiosità: ho passato il film pensando che il padre della protagonista avesse recitato quando era giovane in Beverly Hills. Non era vero. Non c’era nessun attore di origine portoricana in Beverly Hills. O forse sì? Il dubbio mi è rimasto.
Giorno 3
Abbiamo scoperto il posto perfetto alla sala 3 del cinema Reposi. Ve lo rivelerò perché siete arrivati a leggere fino a qui. Quando entrate nella sala vedrete due gruppi di poltroncine: dovete interessarvi al gruppo più lontano dallo schermo. Qui puntate alla seconda fila, e prendete il posto laterale, guardando lo schermo, a sinistra. Quello è il posto migliore. Fidatevi.
Star stuff, di Milad Tanghshir
Documentario che racconta di tre osservatori astronomici (Atacama, La Palma, Sud Africa) e di come sì, le stelle, l’universo, i misteri del cosmo, ma come più che altro questi super telescopi siano come degli specchi per vedere noi stessi. Intenzioni buone, belle immagini, ma il film scade nel filosofico e nel didascalico (nella loro accezione negativa).
Tommaso, di Abel Ferrara
Un americano a Roma, ex alcoolista, prova a cercare di esperire la normalità accanto a una giovane moglie moldava (che in effetti è la moglie del regista Abel Ferrara) e una figlia (anche lei è la figlia per davvero). Willem Dafoe/Abel Ferrara/Tommaso si aggira per una Roma fatta di parchi, di bar gestiti da napoletane, di corsi di recitazione frequentate da giovani donne, di incontri per alcolisti anonimi (e alcoliste anonime). Una Roma dove i problemi del protagonista sono a prima vista molto più semplici rispetto a quelli di un tempo: il clochard che la notte urla sotto casa, la gelosia, le difficoltà sessuali di una coppia: ma questi problemi sono per Tommaso a ben vedere dei problemi enormi, totalizzanti, e alla fine il protagonista ne esce fuori abbastanza spappolato.
Curiosità: durante la proiezione era presente, oltre alla scrittrice finalista al premio Strega Claudia Durastanti, anche il giovane filmaker fiorentino Tommaso Ferrara che con quel suo nome e cognome, era in effetti lo spettatore perfetto. Chissà loro cosa hanno pensato del film.
La Gomera, di Corneliu Porumboiu
Un Parasite, ma fatto bene. Stiamo calmi, sto scherzando. I due film non c’entrano quasi niente tra loro, se per non la questione linguistica (in Parasite si comunica con il codice morse, qui con il linguaggio dei fischi, praticato per l’appunto all’isola della Gomera). Il film è un noir molto buono, forse il miglior film visto fino a qui, piacevolissimo da vedere, citazionista senza essere tronfio, ironico e intelligente. Il film sembra abbia trovato una distribuzione quindi forse lo si potrà vedere in sala, e per quello che può valere il mio giudizio, ne vale la pena.
Curiosità: il regista Corneliu Porumboiu era seduto ieri sera al tavolo accanto quello mio e di Diana al ristorante Kipling (niente di che). Suggeriamo per la prossima volta agli organizzatori di portarlo a mangiare al ristornate Scannabue (il cibo è ottimo ed è servito tra l’altro – curiosità nella curiosità- in bellissimi piatti Richard Ginori).
Giorno 4
Ha smesso di piovere a Torino, è tornato il sole, preciso per la nostra partenza. Che bella città, diciamo. Ci vivrei. Ci vivrei anche io. Lo diciamo ogni volta che veniamo qui. E hai visto? In fondo alle strade ci sono le montagne innevate. Ci salutiamo alla Stazione Porta Nuova, sperando che torneremo ancora l’anno prossimo. Chissà, se i nostri lavori del futuro ce lo permetteranno. Chissà, ci diciamo, se per qualche incomprensibile colpo del destino, prima a poi torneremo al film festival non da semplici spettatori. Eppure questa dimensione di semplici appassionati, senza un fine, senza un impegno, senza l’obbligo di scrivere qualcosa o meno, è meraviglioso, e un grande lusso.
Wet Season, di Anthony Chen
Singapore, oggi, storia di tre solitudini (un ragazzo, una donna, un anziano). A tratti il film scivola, ma in definitiva regge e ha momenti poetici. Di quelli in concorso (ne abbiamo visti solo 4 su 15) è il nostro preferito. Interessante la questione del rapporto tra Singapore, Malaysia (e Cina) in una pellicola per certi versi molto classica (storia d’amore tra professoressa e alunno) servito su un letto di crisi coniugale.
Port Authority, di Danielle Lessovitz
Port Authoritity è la stazione degli autobus di New York in cui arriva il protagonista che assomiglia parecchio al più noto Timothee Chalamet (forse non avevano tutto quel budget). Il film, prodotto da Scorsese, racconta la storia d’amore tra un ragazzo bianco caucasico e una ragazza trans di colore. A Diana non è piaciuto un gran che, a me abbastanza. Forse la nostra visione era un po’ ruvida, perché dovevamo andare in fretta a fine del film alla stazione Porta Nuova (ma Diana dirà che non è così, che a lei non è piaciuto e basta). Sia come sia, si è confermata però una tendenza che abbiamo rilevato in molti film di questo trentasettesimo, e cioè: “gender fluid”. Forse i film raccontano la realtà, o forse (e noi ce lo auguriamo) la anticipano.
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