– Ma dove stiamo andando?
La macchina sbandò appena mentre frenavo davanti a un bivio che, ero sicuro, non doveva esserci.
– Sono tutte uguali queste colline.
– Lo sai vero che i giapponesi vengono apposta a fotografarlo, questo panorama? Senza queste colline la macchina che hai sotto il culo non te la potevi permettere.
– Non c’entrano nulla i giapponesi. Parli sempre così, senza sapere un cazzo.
Fuori il sole scandiva i resti dei filari di granoturco che rastrellavano l’orizzonte da un lato all’altro, ora salendo in alto, ora inabissandosi, come fossero onde di un oceano lentissimo. Fra poco sarebbe tramontato. Lo si indovinava nelle sfumature arancioni che riflettevano sul cofano bianco, dall’aria che mollava la presa, lasciando presagire una brezza. Allora non ci sarebbe stato più nulla da fare: avremmo dovuto girare la macchina e tornare ognuno a casa propria.
– Ma a che ora dovrebbe iniziare?
– Alle nove. Alle nove e cinque chiudono i cancelli e allora ciao.
– È sempre così con te. Mai una volta che si riesca a fare con calma. Io ho già preso un viagra.
Scesi dalla macchina. La strada a sinistra colava verso il centro della vallata, costeggiando un filare di vigne secche e abbandonate. L’altra saliva verso un’isola di bosco, un atollo verde in un mare ambrato.
– Lo sai vero che ci sono le moldave stasera.
– Lo so. Sono quelle di Vetralla, niente di che.
Le orge di periferia si somigliano tutte: donne dell’est, qualche signora piacente, le coppie benestanti della provincia accanto.
– A me non va neanche tanto di andare stasera.
– A me sì. Sali in macchina e guida.
Presi verso l’isola: se c’era un casolare abbandonato era lassù. Mi immaginavo già, nudo, in mezzo a tutta quella gente.
“Come stai?” mi avrebbero chiesto.
“Non troppo bene.”
“Non troppo bene!” e loro, giù risate, pacche sulle spalle e strette di mano.
“Che ti dicevo” si sarebbero urlati l’uno all’altro “Non è una sagoma?”
Dietro di noi si alzava una polvere bianchissima, più alta in lontananza, appena qualche centimetro sopra la strada alle ruote. Lasciavamo una scia che si allargava e sbiadiva lentamente, ricadendo a terra.
– Hai visto, sembriamo una barca.
– Ma che mi frega della barca?
Dietro una curva spuntò un tabernacolo, un’edicola quasi in rovina, con una nicchia vuota e il tetto di tegole rotte. Pregavo di arrivare in tempo così da non doverlo sopportare, da non doverlo svuotare io, qui in macchina, prima che finisse a botte.
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