Lui inizia a correre, l’inquadratura si allarga e parte Lana Del Rey.
Titoli di coda.
Per cinque minuti buoni rimango in una specie di comunione molecolare con la poltrona, come se di colpo la gravità all’interno della sala fosse aumentata e il mio corpo, schiacciato da un peso che non è abituato a sostenere, non potesse fare altro che rimanere immobile dove si trova. Non so bene se fare qualche commento pertinente, piangere o mettermi a urlare. Nell’indecisione leggo con attenzione tutti i credits che posso, fino ai cuochi di set (tre, forse quattro cinesi, il resto francesi/canadesi). Quando arrivano le specifiche della colonna sonora la gravità inizia a normalizzarsi.
Mi alzo e mi avvio verso l’uscita, spiego al mio amico come raggiungere il bagno, gli dico che lo aspetto fuori. Durante le due ore del film ha piovuto, l’aria è satura di un’umidità sottile che crea un alone indefinito intorno ai lampioni, trasformandoli in grosse lucciole tristi. Tiro fuori il telefono, faccio il numero e quando sento rispondere una voce dall’altro capo parte lo spettacolo.
Non dura molto, ma dura abbastanza. Per tutto il tempo mantengo una calma surreale, il suono scivoloso di pneumatici sull’asfalto bagnato copre qualche parola non importante, le persone intorno camminano, fumano, aspettano. La gravità cambia di nuovo, quasi impercettibilmente, ma di continuo. Adesso sento le ginocchia scricchiolare sotto il peso improvviso, l’attimo dopo ho l’impressione che i piedi mi scivolino fuori dalle scarpe, mentre il marciapiede si allontana – solo un po’ – sotto di me. Mentre succede, non sento davvero quello che dico, è come se qualcuno lo stesse dicendo per me. Qualcuno di cui mi fido, che non incontravo da tanto tempo. Continua così per un po’.
Per un momento ripenso a quel fine settimana d’agosto, quando – incapace di ricordare se avesse chiuso o meno la macchina abbandonata in un parcheggio a vari chilometri dalla spiaggia – lui era corso indietro per controllare e si era perso nel bosco, mentre il sole calava. Alla fine era riuscito a tornare. Ci eravamo abbracciati, avevamo riso del fatto che poi la macchina in effetti era chiusa e c’eravamo addormentati abbracciati sulla sabbia, sotto una zanzariera. È passato del tempo, neanche poi così tanto in fondo, ma sembra una vita fa. Qualche minuto dopo sono di nuovo sulla terra, chiudo la comunicazione e raggiungo il mio amico. Respiro.
“Hai fatto quello che dovevi fare – mi dice – Io non ci sarei riuscito. Sei stata brava.” Lo guardo e mi sembra invecchiato. Forse è successo qualcosa stasera, forse abbiamo condiviso qualcosa, mentre non ce ne accorgevamo. Gli rispondo che forse sì, ma che comunque non cambia niente, non a questo punto. “Almeno lo hai fatto per te” – risponde. Chissà se anche tu hai sentito la gravità che andava e veniva, penso.
Per qualche minuto restiamo in silenzio, chiusi nei nostri pensieri. Poi – lentamente, sempre senza parlare – iniziamo a correre, l’inquadratura si allarga e parte Lana Del Rey.
Titoli di coda.
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