Luciano non era convinto: gli occhi della tigre lo seguivano eppure lui non riusciva a ricordarsi se l’avesse dipinta o, al contrario, se fosse lui sdraiato su una tela, impastato a olio, pronto per essere venduto. Fabbricava quadretti scadenti 12 ore al giorno in un capannone diviso a settori: paesaggi invernali, paesaggi estivi, marine e animali. Nel suo settore la maggior parte dei colleghi avevano dei timbri di cani e gatti che inchiostravano alla buona e premevano con forza 7, 8 volte al minuto. Poi c’erano gli uccelli: una squadra simpatica ma un po’ svitata di spagnoli che erano specializzati in piume e becchi. Inchiostrare una piuma non era facile, Luciano lo sapeva. E poi c’era lui: tigri e altri animali rari. Erano i quadri meno venduti anche se, Luciano ne era convinto, erano quelli più curati. Ne faceva al massimo uno al minuto, passando bene il rullo sullo stampo, smuovendo di continuo l’inchiostro nelle vaschette, e per quanto lo riguardava lui si considerava un pittore. Non sapeva disegnare, a stento riusciva a tenere un carboncino in mano, ma questo non voleva dire niente. Assolutamente niente, si diceva Luciano.
Ogni tanto gli capitava di confondersi, a forza di guardare la stessa tigre, di spalle, con il muso girato a tre quarti. Finiva per non sapere più se inchiostrava la tigre, un operaio di una modesta fabbrica in Valtellina per la produzione in serie di quadretti da tinello, o se la tigre disegnava lui in quella giungla immaginata da Salgari nei salotti torinesi.
Questo non lo disturbava finché, uscendo la sera dalla fabbrica, riusciva a ritrovare il senso del sé e a camminare indifferente lungo i viali, mescolandosi a tutti gli altri. Una piccola pastiglia e una la mattina e si assicurava la certezza di essere proprio lui per tutta la giornata. Ma da quando si era innamorato di Elena non bastavano più l’odore di tela grezza, le risate degli spagnoli, i quadri già incartati a dieci a dieci, per riportarlo dentro la gobba che lo piegava quasi a metà. Prima o poi sarebbe rimasto incastrato in un quadro: si vedeva già urlare che c’era un errore, che non avrebbero dovuto venderlo, che vendere un essere umano era schiavitù e la schiavitù è certamente vietata da qualche trattato internazionale. E vedeva anche come i suoi colleghi avrebbero scosso la testa, alzato le spalle, come il capofabbrica sarebbe venuto a controllare e avrebbe riso di quella stranezza, ma poi, subito serio, avrebbe urlato di non rallentare. E allora avrebbe visto la tigre stringere bene lo spago intorno ai quadri e il garzone del magazzino l’avrebbe portato via.
“Cosa farò allora?” si chiedeva Luciano.
La tigre avrebbe offerto una sigaretta ad Elena che aveva appena iniziato a fumare. Sarebbero usciti per qualche mese e poi, chissà pensava Luciano, si sarebbero sposati, felici come colombe, e sarebbero invecchiati insieme, circondati da tigrotti dolcissimi. Sarebbero stati sepolti insieme, alle falde di qualche montagna tropicale, e tutti li avrebbero ricordati con affetto.
“Maledetta pittura” si diceva Luciano, tornando verso casa “Mi fai schifo”.
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