All’età di cinque anni ho visto il mio primo fantasma. Per le vacanze di Pasqua la mia famiglia si riuniva nella casa di campagna di zia Sofia, che poi non era veramente mia zia, non c’era alcuna parentela, solo che io l’ho sempre chiamata zia. Io e mia cugina Anna, che invece era davvero mia cugina, dormivamo in mansarda. Nonostante il soffitto basso e inclinato e i mobili scuri e pesanti, la stanza era inaspettatamente luminosa e calda e mi piaceva stare lì. Forse per le cose strane che si trovavano aprendo un cassetto proibito o per i libri con le copertine morbide impilati sullo scaffale. Ci piaceva prendere i libri di nascosto dallo scaffale e lasciare le impronte sulle copertine. Bastava appoggiarci sopra un dito, premere con un po’ di forza e l’impronta restava impressa, non solo nello strato di polvere che li ricopriva ma anche sul tessuto della copertina, restava la tua impronta precisa precisa identica perfetta, a volte anche per giorni. Poi mamma si affacciava alla porta e ci diceva «Non lasciate le ditate sui libri, sono libri antichi». Io non capivo cos’erano i libri antichi, Anna diceva che antichi significava vecchi e che forse erano vecchi di cento anni o magari di un milione di anni. Forse erano vecchi come quelle persone che stanno nei ritratti appesi alle pareti. Nella mansarda di zia Sofia ce n’erano tantissimi di quei ritratti. Stavano incorniciati uno accanto all’altro, alcuni più piccoli, altri più grandi, in un perfetto ordine. Le cornici erano tutte diverse e poco brillanti. Erano persone che non avevamo mai visto perché erano così vecchie da essere già morte, erano gli antenati defunti di zia Sofia, erano molto vecchi anche se nei ritratti erano giovani. Ti seguivano con lo sguardo ovunque ti spostassi.
Quella mattina ero sola, Anna non c’era, non sapevo dove fosse andata, fuori c’era il sole ma non si sentivano rumori, di nessun tipo, nemmeno degli uccelli o di altri animali di passaggio. Non avevo il permesso di scendere le scale e uscire da sola e aspettavo che arrivasse qualcuno a prendermi. Stavo nel letto e mi divertivo a fare delle forme con le dita, come quelle che si fanno con le ombre, il cane, il gabbiano, il coniglio, solo che lo facevo senza ombre. Mi guardavo allo specchio del grande armadio ai piedi del letto e pensavo che l’indice e il pollice fossero proprio un perfetto coniglietto, con le altre dita a fare da orecchie. Quando all’improvviso l’armadio iniziò a oscillare, prima piano, poi più forte, cominciò a camminare verso il mio letto, sì a camminare, come se facesse dei passettini. Io restai immobile, con le dita a forma di coniglietto, non capivo, guardavo i ritratti alle pareti, anche loro mi guardavano, tutti insieme, e tremavano, o forse era la parete che tremava, tremava tutto, anche il mio letto. E a quel punto lo vidi. Proprio sotto il letto, sdraiato, pancia e gomiti a terra, le braccia sopra le spalle, con le mani teneva strette le doghe della rete e scuoteva sempre più veloce, a destra e a sinistra a destra e a sinistra. Mi guardava dallo specchio del grande armadio di fronte a noi e sorrideva. Durò qualche secondo, mi hanno detto, per me potevano essere passate ore. Mia cugina corse in camera, disse qualcosa tipo «una scossa di terremoto però tranquilla non è successo niente». Io dallo specchio davanti a me fissavo il nulla sotto al letto, con le dita ancora chiuse nel muso di un coniglietto.
Per il secondo fantasma non sarò prolissa: Italia ’90, partita Italia-USA. Avevo sette anni. Forse non era il secondo fantasma, forse ce ne sono stati altri dopo il primo, pensandoci bene potrebbero essercene stati anche prima ma non così segnanti o memorabili, a quanto pare. Nel salotto siamo in tanti davanti al televisore. C’è mio padre, c’è mia madre, c’è mia sorella, ci sono alcuni vicini di casa, c’è anche un amico dei miei che io non avevo mai visto, come quelli dei ritratti nella mansarda di zia Sofia, parlano in dialetto di cose del passato, di prima che io nascessi. Parlano una lingua che non capisco e ridono. Siamo tutti in quella stanza, nel resto della casa non c’è nessuno. Quando ecco che un’ombra attraversa il corridoio, io la vedo dal vetro smerigliato della porta, me ne accorgo perché quando l’ombra ci passa davanti uno spiffero mi sbatte sui piedi e la porta, che era solo socchiusa, si apre un po’, solo un centimetro o due, ma quel poco che basta per fare un rumore, un toc soffocato, un rumore che fa voltare anche questo amico dei miei che io non avevo mai visto. E mi accorgo che anche lui la vede, l’ombra, rimane un secondo a fissare la porta, si accorge che lo guardo, rigida sulla mia seggiolina con i piedi ghiacciati puntati a terra, lui sorride e torna con gli occhi alla partita.
Ce ne sono stati altri di fantasmi. Alcuni spaventosi, altri rassicuranti, altri ancora incomprensibili. Non ho mai capito cosa volessero, se cercassero proprio me o solo qualcuno. Non so nemmeno se mi abbiano mai visto. Non so nemmeno se abbiano mai cercato di dirmi qualcosa. A volte hanno sussurrato nelle orecchie mentre dormivo, altre volte sono apparsi nella coda dell’occhio. E subito svaniti. Li ho visti arrivare e volare via, come se fossero lì per sbaglio o per un colpo di fortuna inaspettato. Li ho visti seguirmi con lo sguardo ovunque mi nascondessi. I fantasmi che avrei voluto incontrare non si sono mai presentati. Non so se esistono, se m’ingannano o sono io stessa a ingannarmi.
Rispondi