di Aquiles José Martínez Pérez
Alle superiori, le lezioni di Storia erano strazianti. Le teneva un professore anziano, un po’ sordo e minuto, che forse per i suoi vecchi abiti larghi, eleganti e polverosi, chiamavamo il Conte.
Entrava in aula con qualche minuto di ritardo, appoggiava la ventiquattrore sulla cattedra e subito iniziava un soliloquio, camminando lentamente con lo sguardo fisso a terra, dalla scrivania alla porta e viceversa. A un certo punto si fermava, si tirava su i pantaloni, stringeva la cintura e ci rivolgeva uno sguardo sorpreso, come se solo allora si fosse accorto della nostra presenza. Poi ripartiva con la sua lunga camminata, e le nostre palpebre cadevano e si rialzavano al ritmo dei suoi passi fino a quando non suonava la campanella.
A scuola giravano certe voci sul suo passato. Ma nella mia classe, a parte me, nessuno ci credeva. Nemmeno Carlo, che era il mio migliore amico. «Chi? Il Conte? Ma non lo vedi che manco sa pavlave?» mi disse, con la sua erre moscia, in una delle nostre lunghe telefonate pomeridiane.
Soltanto io avevo l’impressione che in quella sorta di preghiera biascicata ci fosse qualcosa di unico. Ne ero davvero convinto, oppure ero solo molto testardo. In ogni caso, volevo dimostrare a tutti, Carlo per primo, che si sbagliavano. Quindi, sperando di ricavare chissà che cosa da un rapporto più intimo, chiesi al Conte di aiutarmi con la mia tesina sulla guerra delle Malvine.
Lui ne fu così entusiasta che m’invitò a casa sua diverse volte. E parlava dell’Inghilterra e dell’Argentina, e poi, per ore, dei Sumeri, dei Greci, e persino degli Aztechi. Ma mai una parola su se stesso che potesse confermare o smentire la mia ipotesi. Quindi, dopo poche settimane, in mancanza di prove, dovetti ammettere che non aveva nulla di speciale. E così restò sepolto per un po’ nei miei ricordi, senza gloria, insieme al mio orgoglio e a un cumulo di libri che mi aveva regalato.
Dico “per un po’”, perché sei anni dopo, in una di quelle torride giornate estive che in città lasciano le strade desolate, scoprii, per puro caso, di essermi sbagliato.
Davanti a me, dietro una scrivania di mogano, sedeva l’avvocato Notarpietro.
«Andiamo al punto. Mi faccia vedere» mi disse spazientito.
Fra le mani sudate avevo una busta portadocumenti trasparente. Estrassi la lettera di raccomandazione del relatore, il professor Albertini, e poi il riassunto della tesi. Lui mi strappò di mano i fogli e, da sopra la montatura tartarugata degli occhiali, li lesse.
Avevo scritto e riscritto quelle pagine fino alla nausea. Avevo pure speso in stamperia gli ultimi spiccioli che mi restavano. La borsa di studio era finita da mesi, e nei giorni precedenti al colloquio dovetti saltare la cena, in attesa di un bonifico di salvataggio da mia madre. «Tieni qualcosa da parte per il treno» mi disse.
E lui, l’avvocato Notarpietro, quei fogli di elevata grammatura stampati a laser, li aveva lasciati cadere stropicciati sulla scrivania con disprezzo.
«Lei cosa vuole da me?» disse, e si tolse gli occhiali.
«Il professor Albertini…»
«Albertini è un incompetente che non ha idea di cosa significhi uno studio legale. Se è finito a fare la tesi con lui, io non posso che pensare che lei sia distratto o deficiente».
«Con tutto il rispetto avvocato, mi sono laureato con 110 e…»
«Me ne infischio 110 volte della sua lode. Qui ci vuole altro signor…»
«Valenti».
«Ecco si, Valenti. Lei sa che questo è uno degli studi legali più importanti del Paese?»
«Si».
«Certo che lo sa, altrimenti dovrei dire che oltre a essere deficiente o distratto è anche ignorante. Quello che mi chiedo a questo punto è come lei sia riuscito a fissare un appuntamento con me».
Mi sentii raggelare. Quell’appuntamento era stato fissato da Susanna, la segretaria dell’avvocato Notarpietro, una dattilografa trasferitasi in città a diciannove anni e compaesana nonché migliore amica d’infanzia di mia madre. «Mi gioco il posto, Giuditta» aveva detto avvolgendosi nel suo golfino verde mela. Lei indossava sempre un golfino.
«Non ha proprio nulla da dire?» disse l’avvocato.
E io non dissi proprio nulla.
«Senta, Clementi».
«Valenti».
«Mi lasci il suo curriculum. Se si libera un posto in fotostampa le faremo sapere!» E rise.
Estrassi l’ultimo foglio rimasto nella busta, lo appoggiai sulla scrivania e mi alzai.
«E questo sarebbe un curriculum?» disse scuotendolo in aria.
Cos’altro doveva essere? Mi ero appena laureato. Che voleva da me? Riuscire a riempire quella pagina era già stata un’impresa. Avevo scritto, con frasi lunghe e pompose, tutto quello che mi era venuto un mente. Avevo persino incluso la tesina delle superiori, spacciandola quasi per una tesi di laurea, con tanto di nome di relatore.
Mi diressi alla porta sentendo le risate dell’avvocato mentre leggeva il mio curriculum. Poi, quando fui alla soglia, tutt’a un tratto lui smise di ridere, e forse anche di respirare.
«Aspetti!».
Mi girai e lo vidi con la bocca semi aperta e gli occhi spalancati.
«Lei conosce il ministro D’Angelo?»
Sul momento non capii di chi stesse parlando.
«La tesina delle superiori… Qui c’è scritto che il professore Antonio Ferdinando D’Angelo è stato il suo relatore».
«Si, è stato il mio professore di…»
«Quanta confidenza ha con lui?»
«Non molta. Sono solo andato un paio di volte a casa sua per…»
«A casa sua! Ma perché voi ragazzi non dite le cose importanti subito! Si sieda, venga qui Sorrenti».
«Valenti».
«Si, scusi, Valenti»
Si mise gli occhiali e parlò del ministro D’Angelo. Ma non subito. Prima raccontò la storia di un suo cliente, un ex diplomatico, ormai anziano, indagato per corruzione.
«Innocente, si capisce. Ma è un caso difficile. I fatti risalgono a trent’anni fa. È complicato recuperare le prove… E sa, come dire, se il ministro D’Angelo testimoniasse a favore…»
E poi tanti complimenti per D’Angelo. E che era stato un grande ministro, anche se rimasto in carica solo pochi mesi. E che ora lo sanno tutti che era un uomo corretto. E che hanno fatto male a mettergli una croce sopra. E che tutto sarebbe andato diversamente. Ma come si fa! lui non doveva rassegnare le dimissioni. E che erano altri tempi. E che per quello finì a fare l’insegnante. Ma comunque è stata una fortuna per i ragazzi…
E poi complimenti anche per me. E che, nonostante la tesi con Barbieri, si vede che sono un bravo ragazzo. E che sicuramente è merito di D’Angelo. E che nel suo studio avrei fatto grandi cose. E che s’inizia con un tirocinio. Ma che mi avrebbe fatto fare carriera subito. E chiamiamo la Susanna che ci porti un caffè. E vuole lo zucchero, Gaudenti?
Susanna ci portò il caffè. Non mi guardò, forse per non tradirsi. Però indossava il golfino lampone che le aveva regalato mia madre, credo fosse il suo modo per salutarmi. Appoggiò davanti a me il bicchierino di carta della macchinetta. Poi, con mano tremolante, porse all’avvocato una tazzina di porcellana, finemente decorata, con il suo piattino e un cucchiaino d’argento.
La prima volta che andai a casa del Conte, sua moglie, anziana e distratta, portò in studio un servizio da tè scompagnato: tazzine cinesi, piattini turchi, teiera viennese… Non sapevo che quegli oggetti erano le macerie di un’epoca ormai scomparsa. Quando finì di versare, lui la ringraziò con gli occhi inumiditi. Poi, appena fu uscita dalla stanza, scambiò la mia tazzina con la sua e, anche se era destro, la girò sul piattino in modo tale che il manico fosse alla sua sinistra. Pensai che quel gesto non fosse altro che una delle sue tante stranezze. Invece, qualche ora dopo, quando mi alzai per andare via, vidi una cosa alla quale allora non diedi molta importanza: la tazzina del Conte, quella che aveva tenuto per sé, era leggermente incrinata. Si trattava di una crepa sottile, quasi impercettibile, sul bordo più lontano ai miei occhi, quello in cui aveva appoggiato le labbra.
Al caffè di Notarpietro, nel bicchierino di carta, non diedi nemmeno un sorso. Ormai avevo deciso. Mi alzai, ringraziai Susanna e uscii dall’ufficio senza ascoltare le parole dell’avvocato, prima cortesi e confuse, poi volgari e minacciose.
Fuori, anche se la strada era rovente, camminai lento, con lo sguardo fisso a terra, come faceva il Conte in aula. Cercavo di ricordare il numero di telefono di Carlo. Non ci sentivamo da anni, da quando andai via per l’università.
Poi entrai in un bar e, con i soldi riservati per il treno, presi uno spritz.
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