Da bambino ero terrorizzato dall’idea di essere spiato. Niente paranoie da psicopolizia o servizi segreti, semplicemente immaginavo amici, parenti e conoscenti vari, trovarsi all’interno di un microscopico centro operativo posto dentro la mia testa, simile a quello più recentemente visto nel film Pixar Inside Out, per intendersi, anche se il mio inconscio aveva tratto ispirazione dalla nano-navicella di Salto nel buio, una pellicola del 1987 firmata da Joe Dante e prodotta da Steven Spielberg, la quale, dietro una trama pop-fantascientifica, sembrava nascondere un lato oscuro.
Già il titolo originale, Innerspace, richiamava la fantascienza ballardiana, ovvero l’esplorazione dello spazio interiore umano, qui rappresentato in senso letterale. Tuck Pendleton, un ribelle pilota di aerei da guerra, viene rimpicciolito e introdotto all’interno del corpo di Jack Putter, un nevrastenico commesso di supermercato. I due sviluppano un processo di simbiosi, che porta Tuck a sconfiggere un’organizzazione criminale che vuole impossessarsi della tecnologia di rimpicciolimento, e Jack a riscattare la sua vita, passando da ragazzo imbranato a uomo sicuro di sé.
Qualcuno, in questo film, vi ha letto una metafora sull’uso degli psicofarmaci come forma di controllo della salute mentale. L’ipocondria di Jack infatti non viene identificata nella sua condizione sociale di precario subalterno mal considerato da superiori, amici e colleghi, ma come un difetto individuale, risolto dal Maschio-Alpha-Tuck nel momento in cui viene introdotto in Jack, divenendo, a tutti gli effetti, un agente in grado di regolare la sua pulsione autodistruttiva e mortificante.
Tuttavia, speculando per speculare, l’immagine di un corpo estraneo in grado di spiarci e controllarci, iniettato nel nostro corpo attraverso una siringa, potrebbe risultare, agli occhi di un complottista, un messaggio fin troppo esplicito. Mi stupisce dunque che Innerspace non venga ancora analizzato sotto quest’ottica.
Forse il suo messaggio è più innocuo: parla alle persone insicure e dubbiose, e le invita a cercare dentro sé quella forza in grado di farle riscattare all’interno di una società ultra-competitiva. La quale, negli anni Ottanta, pompava quell’individualismo illimitato che, dieci anni dopo, iniziava a mostrare i suoi limiti sociali ed esistenziali. Questi sono ben riassunti in Essere Jhon Malkovich, film di Spike Jonze del 1999.
Qui la mia infantile ossessione è stata perfettamente rappresentata, tant’è che non ho potuto fare a meno di pensare a quanto Charlie Kaufman, lo sceneggiatore, potesse essersi fatto influenzare dalla pellicola di Joe Dante.
Qualcuno potrebbe sorridere al pensiero di porre sullo stesso piano i due film, ma non è una questione estetica o cinematografica, quanto di affinità: Craig Schwartz, il marionettista protagonista di Essere Jhon Malkovich, è una variante decadente e disillusa di Jack Putter. Falliti i sogni che la società gli ha insegnato a perseguire, deve trovarsi un lavoro umile e produttivo con cui campare sé stesso e la moglie.
Il “settimo piano e mezzo” dell’azienda LesterCorp per cui lavora, e il canale nascosto che lo “siringa” nella testa di John Malkovich, non sono altro che una variante, raffinata e colta, dei freddi e meccanici laboratori scientifici in cui Tuck Pendleton viene rimpicciolito.
Smontato l’artificio estetico, i due film esplorano un terreno comune, osservato da prospettive differenti. Se Salto nel buio è, tutto sommato, conservatore e positivista, Essere Jhon Malkovich è al limite del decadentismo postmoderno. L’illimitata crescita tecnologica ed economica è inadeguata a superare i fallimenti e i limiti umani, anzi, li acuisce, spingendo l’individuo ad autoinfliggersi colpe e ruoli che non gli competono.
Se Innerspace racconta di una generazione che sguazza nel brodo primordiale di quello che Mark Fisher ha definito Realismo Capitalista, Essere Jhon Malkovich sembra parlare a chi in quel brodo ci è affogato, avvilito da promesse tradite, le quali già si intravedevano nel finale tragicomico di Salto nel buio, dove l’espressione sconfitta e rassegnata di Jack Putter, quando vede Tuck e la bella giornalista Lydia sposarsi, non è diversa dall’espressione di Craig quando vede Lotte e Maxine, rispettivamente moglie e musa del marionettista, andare via assieme, nel taxi, dopo che lui ha lasciato il corpo di John Malkovich.
Oggi, quell’infantile terrore di essere spiato da qualcuno posto all’interno di un microscopico centro operativo nella mia testa, è sparito, ma non cancellato. È sopito, anestetizzato da un’epoca in cui siamo noi, allo stesso tempo, parte e vittime di un processo di controllo e morbosa curiosità della vita del prossimo. Un’epoca in cui siamo noi, allo stesso tempo, tanto Tuck Pendleton quanto Jack Putter/Craig Schwartz.
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