Di Francesco Quatraro
Giulia mi ha detto del Camillino mentre stavo guidando per varcare in qualche modo l’Appenino. Avevamo preso la strada quella lunga, così Giulia avrebbe dormito come a ogni valico, e io avrei guidato pensando alle curve, che mi piace, così mi dimentico quasi di tutto, o magari avrei pensato o alla voce di Giulia che so essere la cosa più bella da immaginare, o alle cose da dire a Giulia quando si sarebbe svegliata. Ma mentre guidavo Giulia mi ha detto che il suo gelato preferito era il Camillino, e il Camillino non esisteva più da vattelappesca quando.
Ho pensato a quanto negli anni prima Vania la avesse menata con le cose che piacevano a lei e che finivano subito fuori mercato: a ogni cena, a ogni incontro, a ogni marecongliamici saltava puntuale fuori la storia dei biscotti subito usciti dal mercato, o potevano essere cereali, o caramelle, insomma Vania era una vittima del mercato miope.
Giulia si limitava a descrivere il Camillino, a stringersi attorno all’idea del gelato che le era piaciuto, a definirlo. Quando è arrivata a rendere manifesto il contenuto interno del Camillino, di fatto delle palline non meglio definite di cereali o cioccolata, ecco, in quel momento io ho ricordato distintamente il Camillino. L’avevo praticamente davanti. Immediatamente sapevo bene la relazione che c’era stata – e c’era stata – tra me e quel prodotto. Scomodiamo pure Proust, ma aggiungiamo che la Madeleine del Camillino per me è stata priva di contatti sensoriali: era solo la descrizione di Giulia, per niente minuziosa eppure tanto efficace, a precipitarmi nella piazza del paese nell’estate dei primi Novanta. Quelle palline nascoste dentro il gelato le ho ricordate con un nitore quasi artificiale Di colpo la mia storia alimentare era una costellazione di Camillini sbiaditi, mai riportati a galla.
L’effetto è stato quello di ricongiungermi a qualcosa che non ero. Voglio dire, qualcosa che ero stato ma che non sapevo più di essere. Chissà di quanti ritrovamenti è fatta la maturità, l’integrità, la pienezza. Queste riflessioni a Giulia le ho taciute, ma lo stupore nel ricordarmi del Camillino, del sapore, della consistenza, delle estati, della preadolescenza fatta di amicizie un po’ forzate ma con cui condividevi evidentemente il Camillino, insomma tutto quel pacchetto nostalgico è uscito chiarissimo dalle mie espressioni e dalla mia bocca semiaperta per circa cinque minuti, mentre l’appennino cominciava a mostrarsi davvero, col volante che si piegava a salite e curve.
Così ho pensato al tempo, e dopo aver messo un disco di Ivan Graziani e aver intuito che Giulia era giustamente crollata a quota 1000, ho pensato al fatto che ricongiungersi è tutto, che essere integri è solo un fatto di ricongiunzioni, di storicizzazioni, di sguardi su sé che coinvolgono il mondo. Se non ti ricongiungi scompari, come Marty McFly, che nel 1955 non ha più ascendenze e pur suonando Earth Angel con un gruppo della madonna comincia a farsi evanescente, con gli effetti che sottolineano che se lui è evanescente gli si vede attraverso. Marty deve fare in modo che tutto si ricongiunga, che “ehi tu porco levale le mani di dosso”, che l’amore insomma trionfi, pena l’evanescenza. Marty lo deve al tempo.
È un periodo che a me il tempo manca. Manca il tempo per leggere, per dire cose sensate alle figlie – fatte di bene e di futuro e di Ritorno al futuro – per fare all’amore con calma, per trovare o pensare una casa, per spiegare a Vania che davvero bisogna guardare oltre, per preparare una parmigiana come si deve, per mettere le fatture in una cartella sul desktop con scritto FATTURE, per preoccuparsi che un futuro esista e che cosa diamine significhi. Ad averlo, il tempo, si dovrebbe davvero spenderlo a ricongiungersi con tutto, e la ricerca si farebbe profondissima e infinita, e giù giù fino agli avi più avi, a guardare ascendenze e possibilità, ad assottigliare la coscienza per vedere se senti, infondoinfodo, di assomigliare a qualcuno, di avere radici, di non dover scomparire come Marty e di non far scomparire le discendenze come i genitori di Marty stavano per fare con lui. Ma il tempo non è cosa da riavvolgere, se non per il fervore delle distopie di primo pelo; perciò si va avanti, e si raccolgono spunti di risa o ogni tanto qualche fugace Camilllino.
Perché a veder bene di Ritorno al futuro quel che si ricorda non è il rapporto col tempo. A Zemeckis non gliene fregava niente del rapporto col tempo, non lo ha sottolineato quasi mai. Il rapporto col tempo sembrava essere una riflessione che andava coerentemente lasciata in secondo piano, privilegiando tutto quell’intrecciarsi di personaggi vivissimi che davano forma all’America anni Ottanta fatta di skate e di grandi foto in quarta degli scrittori di successo. Una sola ricongiunzione forte c’è davvero, in quel film: l’automobile che gira col megafono facendo propaganda al candidato sindaco, che usa lo stesso slogan sia nel 1955 che nel 1985: rieleggete (peraltro, ri-eleggete: ricorsivo due volte) il sindaco, il suo nome significa progresso. Una ricongiunzione dovuta, ironica e probabilmente non troppo raffinata. Eppure illuminante: ricongiungersi nel nome del progresso, dell’andare avanti (oh, USA), perché di qualcosa si deve pur andare avanti. Ecco, da ora io vado avanti con una consapevolezza di Camillino in me, una consapevolezza di plastica e di carne e di palline, ora che il gelato manco mi piace più tanto. Ma datemi retta: ai vostri figli piacerà, come Johnny B. Goode in salsa Van Halen.
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