di Domitilla Pirro
Sono riuscita a salutare mio nonno il giorno che è morto, solo che lui non lo sa.
Sono arrivata per le sette. Mi aveva accompagnato mia madre prima di iniziare il turno in ospedale. Il cancello era accostato, ero riuscita a entrare senza suonare. Zia mi aspettava con la teletta del vomito della figlia sopra a una spalla. Sembrava un fantasma. La teletta, non mia zia. Zia era al picco di una depressione post parto più una depressione pregressa mai diagnosticata — nemmeno dalla sorella —, l’obesità di terzo grado, i capelli trattenuti in cima alla nuca da una serie di becchetti. Sembrava un fantasma pure lei. Quando ha sorriso l’ho vista un po’ di più. Non l’ho mai chiamata zia, solo Claudia. Ci passiamo appena vent’anni. È sempre stata una con l’adolescenza lunghissima, non le è mai interessato diventare zia per etichetta. Oggi se la chiamo per nome si avvelena. Se la chiamo in generale si avvelena. All’epoca no.
L’ingresso con la porta blindata è in comune. I nonni stavano di sotto, nel seminterrato. Quello che sono riuscita a fare quel giorno, quando sono scesa per salutarli e ho trovato al fondo delle scale un’altra porta e poi un salotto senza finestre, la luce un po’ rosa e un po’ gialla, tantissima, la carta da parati coi fili come capelli d’angelo, quello che sono riuscita a fare è stato sorridere a nonna in vestaglia e mascara sbaffato, messo in fretta solo perché venivo io, io estranea familiare, e affacciarmi nella stanza dove nonno riposava e constatarlo ancora spento. Ancora in coma. E dire “Nonno ciao”, raccontargli un po’ di cose.
In camera l’armadio era bianco. Sopra al letto la trapunta bianca. Sul comò bianco i centrini bianchi. Il salotto giallo e rosa, invece. Il loro appartamento era un uovo. Risolvevano l’assenza di finestre generando questo sole di tuorlo. Ricordo nonna che dice “Scusa l’odore, ieri ho fatto il ciambellone”. E io “Ma è buonissimo il ciambellone, nonna, ma ti pare”. E lei “Vuoi fare colazione, a nonna?”. E io “No, salgo da Claudia, così l’aiuto co’ Pupetta, sono venuta apposta”. Nonna: “Poi torni, a nonna?”. Io: “Certo che torno, nonna, ma ti pare”.
Quando Pupetta si è svegliata, al piano di sopra c’era più luce. Rideva, mi pareva incredibile: aveva la faccia di mio fratello bambino e io pensavo ai geni della nostra famiglia, le virgolette d’espressione, le parentesi sdraiate delle sopracciglia. I punti-nei. Claudia era scesa da nonna, il marito era uscito. Io cercavo di cambiare il pannolino a Pupetta senza colare merda dappertutto. Mi tirava calci sullo sterno. Rideva, ancora. Poi ho sentito le urla dal piano di sotto. Non ricordo che ho pensato. Forse ho capito. Ho tirato su Pupetta senza averla rivestita bene, avevo sbagliato i bottoni, il body si è riaperto e il talco è caduto a terra proiettando una striscia chiarissima sul finto parquet. Ho sentito i passi su per le scale. Il peso caldo e buono di Pupetta appesa al collo. Claudia che appare nel rettangolo della porta, parla veloce, non ricordo che dice, forse che deve chiamare la sorella. E che io devo restare con Pupetta. E io resto. Che è la cosa migliore: finché sorrido non vede che piango, non capisce un cazzo. Come tutti i pupetti non capisce altre lacrime se non le sue.
Oggi che nonna sta male nel seminterrato, oggi che le figlie non si parlano e di lei si occupano a turno — oggi che sono passati quindici anni e Pupetta c’ha l’iPhone —, penso che forse è stata lei. Nonna, dico. Che forse è passato dai suoi geni questo veleno familiare estraneo, fino a berlo tutte noi. Non capiamo altre lacrime se non le nostre. Oggi che mia madre non ha il permesso di usare l’ingresso comune e aspetta fuori — oggi che è vietato parlare con Claudia con la figlia di Claudia col marito di Claudia e a vietarlo è stata Claudia stessa —, mi chiedo dove sarò la prossima volta delle urla al piano di sotto. Mi chiedo se ci sarà qualcuno a urlare o se invece ci sarà solo silenzio seguito da un tipo di silenzio diverso. Mi chiedo se si spaccherà il tuorlo di luce.
Sono riuscita a salutare mio nonno il giorno che è morto, solo che lui non lo sa — ma meno male che non sa. Meno male che non sa niente nessuno, né estraneo né familiare.
Domitilla Pirro (1985) è giornalista pubblicista iscritta all’ODG di Roma e direttrice creativa di Fronte del Borgo alla Scuola Holden di Torino. Con il racconto Sote’ ha vinto la quinta edizione del concorso letterario 8×8 organizzato da Oblique Studio; suoi racconti sono usciti su «la Repubblica», «Linus», «Playboy», «minima&moralia», abbiamoleprove.com e in Brave con la lingua (Autori Riuniti). Insieme a Francesco Gallo crea e anima “Merende Selvagge – mica la solita storia”, progetto didattico-narrativo per umani di varie dimensioni. Il suo primo romanzo, Chilografia, è uscito a novembre 2018 per effequ.
Stefania piccigallo dice
Domitilla Pirro continua ad essere ironica e graffiante, profonda e sincera, senza paura di mostrarsi.
La grande penna (anzi, tastiera) anche nei brevi racconti.
Con stima e ammirazione , a questa grande, sebbene giovane, scrittrice di talento.