di Silvia Costantino
Da piccola svenni. Ero la più alta della classe alla scuola materna, che aveva un grande giardino che dava direttamente sopra gli uffici dove lavorava mio padre. Nelle feritoie della finestra del suo studio spesso lasciavo cadere margherite e fili d’erba, così lui alzava gli occhi, imbarazzato per i pazienti ma forse contento.
Un giorno, dicono, svenni.
Forse urlai, forse piansi, forse diventai tutta bianca e mi feci silenziosa, insomma, a un certo punto decisi che quel dolore fortissimo alla pancia non era più sopportabile da una bambina cosciente. Il fatto di avere mio padre vicino, e per estensione un intero dipartimento sociosanitario sotto di me, arginò la crisi. Colite, o aria in pancia, si concluse.
Soffrivo molto di quei mal di pancia quando ero piccola. Ricordo le fitte che mi trapassavano, non ne ricordo i motivi perché appunto cosa vuoi che somatizzi una bambina, anche se ansiosa come quella del presente cui ancora il dottore dice che è piena d’aria. Immaginavo di bucarmi la pancia come un palloncino e soffiare via il dolore.
Alle scuole elementari avevo un accenno di tette, ero ancora la più alta della classe, e avevo un mal di pancia che decisi di ignorare: ero grande abbastanza. Ma era sempre più forte e alla fine lo dissi alla maestra, e mio padre, che a quel punto non lavorava più sotto di me ma era comunque vicino, mi venne a prendere. Mi lasciai andare alle contorsioni, agli ululati, all’espressione di un dolore insormontabile, forse vomitai anche, o forse il mio ricordo è un po’ esasperato. La verità è che non ricordo nulla fino al momento in cui ero sdraiata su un lettino con della carta ruvida sotto di me e c’era un dottore che mi puntellava con le dita in punti specifici della pancia chiedendomi se fossi andata di corpo e io lo guardavo perplessa perché non avevo seriamente la più pallida idea del significato di quella domanda. Hai fatto la cacca?, non ne avevo idea, occhi all’insù del genitore. Venne fuori che avevo l’appendicite e che il giorno dopo mi avrebbero ricoverata. Non devi mangiare niente e puoi bere solo tè, ma ora che ci penso forse era camomilla.
Ricordo, credo, di aver bevuto una cosa calda da una tazza calda, ricordo di essere stata messa a letto dalla mamma. Probabilmente non avevo più dolore perché ricordo che mi misi a letto e ridevo, e feci una specie di mezza capriola all’indietro che mi lasciò con le mutande in vista, e ricordo quasi nitidamente mia madre che mi fermava con le gambe in su dicendomi aspetta, no, niente, mi era sembrato di vedere una cosa, e poi mi ero rimessa giù a dormire, tutto sommato emozionata all’idea che il giorno dopo mi avrebbero operata.
La mattina dopo era il 14 febbraio. Ero di nuovo nel convento che ora è un ospedale, c’era un altro dottore, mio padre era lì, non avevo male, non ricordo domande, ma immagino mi sia stata chiesta l’età, di nuovo dita puntate nella pancia, ma non avevo dolori, solo un fastidio come se dovessi andare di corpo ma alla fine nemmeno quello, era una cosa diversa, una contorsione in basso, sotto, tra lo stomaco e la vescica, come se mi si stesse spostando qualcosa e mi stesse dando noia, e il dottore aveva detto a mio padre guardi aspettiamo un’altra giornata vediamo come va, e allora eravamo tornati a casa e mio padre era andato a lavorare, e mia mamma era già a lavorare e io non avevo niente da fare se non guardare la televisione e leggere e andare a fare la pipì che magari il fastidio che non era appendicite passava. C’era sangue.
Ero la più svagata della classe, non pensai a un’emorragia né mi spaventai. Trovai nel ripiano sotto il lavandino gli assorbenti di mia madre, spessi anatomici, e iniziai un lungo giro di telefonate alla famiglia per dire che ero diventata grande. Non ricordo assolutamente nulla di quello che mi consigliarono.
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