Alla fine dell’estate ci scambiavamo un oggetto, qualcosa da stringere una volta arrivati a casa, in città, per ricordare di essere ancora vivi. Lui mi diede la sua maglietta. Non una maglietta qualunque, proprio quella che indossava certe sere, quando metteva anche il gel e il profumo e non si appoggiava al muretto per tenere i pantaloni puliti. Me ne accorgevo quando era una di quelle sere, lui si guardava attorno e non guardava mai me.
«Posso regalarti la mia maglietta?».
«Quale maglietta».
«Quella rosa e bianca».
«Perché dovresti darmi la tua maglietta».
«Dai, io ti do la mia maglietta e tu mi dai questa collana», sfiorandomi la clavicola.
Il medaglione con il simbolo della pace era l’oggetto più trasgressivo che possedevo.
«Ti piace molto la tua maglietta, non la voglio».
«Mi piace molto anche la tua collana».
«Se ci tieni».
Afferrò il cordoncino e lo fece sfilare sopra la mia testa, tenendomi la mano tra i capelli forse più a lungo del necessario.
Non era una cosa romantica, nessun ti voglio bene, scambiamoci i numeri di telefono, sentiamoci ogni tanto, scrivimi una cartolina per Natale, no. Non eravamo nemmeno così amici. Ci facevamo compagnia mentre gli altri sembravano divertirsi molto più di noi. Stavamo in silenzio sulle altalene strusciando le suole delle scarpe sulla sabbia, poi ci infilavamo sul dondolo per fumare, lui restava in piedi facendo oscillare la struttura rugginosa. Si sedeva di fronte a me e accendeva la sigaretta, mi passava il mozzicone tenendo la fronte bassa, io allungavo il collo per controllare la strada.
«Posso leggerti la mano?».
«Non ci credo a queste cose».
«Dammi la mano».
«Destra o sinistra?».
«Sinistra».
«Ho le mani sudate».
«Ma hai le mani piccolissime!».
«Lo so».
(silenzio)
«Avrai tanti fidanzati».
«Sei uno stronzo».
«Sul serio, guarda che linea dell’amore».
«Smettila di prendermi in giro».
«Devi arrenderti al tuo destino».
«Non voglio avere tanti fidanzati».
Tirai indietro la mano con uno strattone molto più deciso del necessario, lui continuò a ridere mentre io trattenevo il respiro per diventare ghianda ed essere divorata da uno scoiattolo o un cinghiale. Rinascere quercia, forse leccio. Trattenere il respiro era la cosa che mi riusciva meglio: ridurre al minimo gli stimoli esterni e pacificare qualsiasi tipo di emozione ─ felicità, paura, dolore, rassegnazione ─ fino a indurirmi in corteccia. Sarei stata brava a trattenere il respiro anche negli anni successivi: quel viaggio con gli amici, il tema della maturità, la scrivania dell’ufficio, le scarpe sulla spiaggia, il ristorante del primo appuntamento, la bara di mia madre, le strade vuote e le saracinesche abbassate, la banchina della stazione, la culla di mio figlio, il conto in rosso, le parole dietro al palmo della mano, le facce nere di terra e di sangue, l’acqua al ginocchio, gli stivali in cima alle scale. Stavo già mettendo radici quando il cuore iniziò a battere più veloce, ignorando la mia volontà.
Avevo molte sopracciglia a sedici anni e indossavo salopette di jeans sopra le magliette bianche della salute. Lui ascoltava i Katatonia. Io non sapevo chi fossero i Katatonia. Mi fece ascoltare una cassetta e non ero sicura mi piacessero ma mi aveva fatto ascoltare una cassetta, a me, dal suo walkman, un auricolare io e uno lui, dicendo «questa è bellissima», «questa la devi sentire», «aspetta vado avanti e ti faccio ascoltare la mia preferita», quindi certo che mi piacevano i Katatonia, non avrei ascoltato altro per il resto della vita, tutti i giorni, tutte le notti, finché morte non ci separi. Avrei voluto trattenere il respiro ma un riflesso me lo impediva. Era un desiderio che non aveva un colore o che forse li conteneva tutti, una frenesia che pungeva e provava a luccicare sul fondo di un pozzo, era una speranza che intonava una melodia conosciuta ma che non riuscivo a ricordare o che somigliava a qualcos’altro. Era una vicinanza. Era anche un’assenza, un presagio di privazione. Un timore, un seme di mancanza. Era la necessità di stare un po’ più vicini, mentre il sole già tramontava all’ora di cena. Continuai a respirare.
Non l’ho mai messa, la maglietta. L’ho appoggiata sulla sedia accanto al letto e ho messo le cuffie. Play. Profumava delle giostre dietro la chiesa, la maglietta. Della polvere del campetto da calcio in fondo alla strada, del biliardino e del jukebox della sala giochi. Mi aveva spiegato il procedimento più efficace per scolorire le t-shirt con la candeggina. Era così che aveva fatto le striature bianche sulla sua maglietta rosa. Era stata la nostra conversazione più lunga. La maglietta è rimasta su quella sedia per settimane per poi essere dimenticata sotto i maglioni e le sciarpe di lana. Lui è andato a vivere in un’altra città. Me l’ha detto suo cugino, l’estate successiva.
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