di Selene Mattei
Stavano facendo una gita di un giorno, lei e lui, la strada ansante sotto la caldana guidava verso il mare gli unici quadrupedi capaci di avanzare a quelle temperature: i dinosauri a motore, in fila uno dietro l’altro, strisciavano le ruote consunte verso l’ultima pozza, meta ingloriosa piena di brandine e ombrelloni disposti a formare una texture allegra e colorata di cerchi e rettangoli che preventivavano piedi in ammollo e conversazioni fiacche, destinate a capitolare in angosciosi «Oggi non ci si sta».
Ciononostante, sui lidi della fine dei tempi fotografarsi a più riprese resisteva a qualsiasi calura, fosse pur arso il mondo intero.
Dalla Valle del Silicone, stanco di vincere a ping pong e pregno di Redbull, Zuckerberg avrebbe potuto testare la potenza nucleare dei server di Facebook estraendo quasi tutte le barre di controllo e provocando la fusione del nocciolo della vita contemporanea: «Mi dispiace per l’interruzione di oggi, so quanto vi affidiate ai nostri servizi per rimanere in contatto con le persone a cui tenete», avrebbe annunciato a danno fatto, noncurante dei quattro ingegneri del MIT ricoverati per insanabili ustioni da grafite e dei 6 miliardi di spiccioli in tasca ad altri grandi competitors.
Ma se anche tutto questo si fosse verificato, per l’assoluta discrepanza tra fluttuazioni dei mercati finanziari e vita primitiva del 99% della popolazione mondiale, lei, ignara, sulla battigia rovente, avrebbe comunque chiesto: «Mi fai una foto qui?»; e lui, in ginocchio sotto l’invisibile polvere radioattiva, avrebbe inquadrato il soggetto da più angolature, assicurandosi di aver collezionato abbastanza materiale da selezionare più tardi al bar, momento propizio per decidere quali scatti avevano catturato al meglio la realtà che valeva la pena di ricordare, davanti a due virgin colada infiocchettati da fettine d’ananas di prima importazione e cannucce biodegradabili stoccate all’ingrosso.
Entrambi si desideravano come si desiderano le proprietà dimagranti della bromelina, il potere diuretico di un’emozione leggera, sana & buona, e poi certo, in parte anche come persone in carne, ambedue fornite di vesciche pronte a drenare le scorie in eccesso contro le imperfezioni da ritenzione idrica.
«Guarda amore, che belle!», esclamò dopo un sorso allo 0,1% di grassi lei che, sullo schermo, era sempre in scena. Ma che dire di lui?
Se fosse stato solo un cane, avrebbe preso a scodinzolarle addosso, essendo un uomo, si accontentava di sorridere e annuire con la testa. Dopo l’assenso iniziale si accorse, tuttavia, prendendo lo smartphone in mano, che nel resoconto della giornata compariva come pezzo di schiena, braccio avvolto intorno al collo, mano posata su una coscia, profilo a metà: ritagli da collezione sul diario di un serial killer digitale.
Continuava a scrollare avanti e indietro ma non riusciva a trovarsi completo, in nessuna foto. Dov’era? E davvero se ne accorgeva solo ora, giusto perché gli era venuta voglia di cambiare l’immagine profilo?
Da anni curava meticolosamente la sua home, conscio del fatto che conseguire il successo significava adempiere ai suoi obblighi. Aveva capito che il suo corpo era qualificato alla conquista, e trarne vantaggi significativi non era difficile dentro un campo d’azione già disegnato da una piattaforma intelligente, ma fuori quel perimetro dilagavano i mostri del fallimento, la miseria, 0 likes. Da quant’è che non pubblicava più? Una settimana? Due? Lei gli aveva tolto la costanza che la cura a esistere impone, gli aveva sottratto il potere di far parte delle cose reali, e lui nemmeno se ne era accorto.
Cristo, fosse stato almeno credente, vivere unicamente in riscatto a un altro, sussidiario ai suoi entusiasmi, non sarebbe stato forse insensato; ma la sua devozione verso i principi dogmatici digitali era stata addomesticata da personalissime gratificazioni istantanee a forma di cuori rossi e approvazioni cumulative di super like e adesso, mentre il pollice incespicava sullo schermo come un tergicristalli impazzito, la certezza di aver perso il centro lo inorridiva, lo offendeva al punto di sentirsi umiliato, deriso. Totalmente ignaro che l’ambiguità semantica della sua autonomia stava nel riflesso di un’identità barcollante, erosa dal desiderio di essere qualcosa, qualunque cosa per chiunque altro purché non fosse uno soltanto.
Credeva di disprezzare il proprio corpo fatto a brandelli, ma in definitiva non riusciva a digerire di aver ceduto le potenzialità del suo protagonismo ad un’unica persona che invece non aveva smesso di esercitarlo; non riusciva a sopportare di essere stato derubato di questa possibilità da lei, dal rumore che faceva tirando su le ultime gocce in fondo al bicchiere e dal modo in cui continuava a ridicolizzarlo chiedendogli per l’ennesima volta: “Facciamo una foto?”.
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