Essi Vivono ST02, ep9
di Rebecca Moore
Lavoravo in un laboratorio di falegnameria. Tutto il giorno scartavamo e dipingevamo, dipingevamo e scartavamo. La sera, una scia di resina e pallore mi seguiva per le stanze.
Durante la pausa pranzo vagavo per il parco lì vicino, mi stendevo su una panchina solitaria oppure andavo al bar. La barista era Giovanna d’Arco, capelli a spazzola e strani sorrisi, occhi dannati quasi neri, liquidi come perle. Mi preparava il caffè e quando mi voltavo a guardarla era sempre lì.
Il giorno dopo correvo al bar, non sapevo nemmeno bene il perché. Mi facevo fare il caffè e lo bevevo lentamente. Me ne andavo, mi voltavo sulla porta come ad esserne sicura, e lei era sempre lì.
Scoccava di nuovo l’ora. Nella parentesi in cui fuggivo al destino, nel tuono di un gong cinese, lei mi aspettava. Il momento era fugace come una luna nuova e lei lo tratteneva con poche parole. Mi salutava con occhi lucidi, per passarmi il resto mi sfiorava la mano.
Un giorno la trovai fuori, un bicchiere di vino, una sigaretta, le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti. Mi chiuse qualcosa nel pugno della mano e sparì. La cercai ovunque, ma senza trovarla.
Tornai al lavoro. Il cuore scalpitava, la mano era di segatura. Aprii il pugno stretto della mano. Il messaggio mi tappò le orecchie e mi annebbiò il cuore.
Ne arrivavano a centinaia, quando li desideravo e quando sapevo che dovevano arrivare. Messaggi sparsi, senza voce. Alzavo lo sguardo verso l’orologio a muro.
Correvo al bar. La sera ballavo fuori dalle sue porte, sulla strada grigia dell’imbrunire, sotto luci fioche come tigli. Cantavo, fra i sorrisi ammiccanti dei bicchieri, alle stelle e alle fanfare. Il vento portava la voce dei viali e come un gatto sordo mendicavo le emozioni. Lei mi tuonava accanto come un idolo e io mi trasfiguravo come in un sogno di bambina.
Mi scriveva: sei come il giorno di un giorno d’estate. Le rispondevo: arriverà. Le sue carezze profumavano di resina, notte e vino.
Un giorno mi ammalai e stetti tre giorni a letto e non venne nessuno. C’era silenzio in ogni stanza. Quando la febbre calò mi precipitai al bar, contando i passi, il cuore in una gabbietta per uccelli. Lei era là. Non appena mi vide, girò le spalle e camminò via. E non volle più parlarmi, né vedermi.
Andavo ogni giorno, ma lei non voleva più parlarmi, né vedermi.
Non facevo altro che rigirarmi fra le mani le nostre parole. La porta del bar era una bocca. La vedevo ogni giorno, lei era sempre là. Fra le labbra del vento, dei viali e dei tigli.
Poi un giorno alzò lo sguardo: bicchiere, sigaretta, maniche arrotolate. Ma non voleva più parlarmi, né vedermi.
Girai le spalle e attraversai la strada, scacciando i ricordi che mi tagliavano la gola, ubbidendo a un altro cuore. Una macchina veniva nella direzione opposta.
Caddi a terra e non sentii niente, solo l’asfalto. Il cielo una coperta di ghisa, la polvere della strada. Un tamburo rullò nel mio orecchio e si distesero delle voci nel tempo, delle grida. Avevo ancora un messaggio nel pugno della mano.
Il suo viso apparve come un sudario. Mi sorrideva, come un giorno d’estate, un giorno d’estate scuro. Le mani, di segatura, si intrecciarono alla strada. Si fece buio d’improvviso.
Ti innamori e ti disperi e poi ne vorresti ancora. Bellissimo.
Racconto poetico e toccante anche struggente . Mi è piaciuto molto
Finale totalmente inaspettato e le descrizioni azzeccatissime!
Un racconto di cui vorrei sapere cosa succede prima e dopo, una finestra su un momento che mi piacerebbe spalancare, tante emozioni, grazie di questo momento.
Un racconto che trasuda emozioni restituite per immagini vivide, tangibili. La sensazione di non controllo, di stordimento infantile pregno di desiderio. L’ebbrezza paradisiaca di un amore in potenza ed il cataclisma del rifiuto. Accadimenti interiori spesso insondabili anche a chi li vive, ed è la città che aiuta a rivelarli con continui messaggi sensoriali. Tutto accade come in un sogno. I sogni non consolano mai, ma ci curano sempre.