Mi trovo in un salotto di legno, persa in una nube di pulviscolo atmosferico esaltato dalla luce di un sole sconosciuto. L’arredamento è al servizio dell’immaginario, ci sono abat jour bellissime e innecessarie e vecchi poster di moda. Da fuori arrivano i rumori di East Harlem il pomeriggio, e il tutto. Il tutto vale a dire: New York! L’America! È solo un salotto ma per me è irreale. Più tardi mi verrà detto che all’inizio è così un po’ per tutti. Sono arrivata meno di 24 ore fa, sono nata meno di 24 ore fa, e ancora non ho trovato il coraggio di uscire. Come funziona questa città? Come si esce di casa? Sto girando nel salotto senza uno scopo da ore, quando un messaggio su Instagram mi salva.
Ho conosciuto T. anni fa durante un’altra vita a Parigi. Una volta andammo al museo nel Marais, era una domenica di sole come oggi, ma faceva meno freddo. Mi propone di raggiungerlo dall’altra parte di Harlem: “quella gentrificata”, scrive. Quindi è semplice, arrivi e gli amici ti cercano? Esco per strada e sono così felice che ballo da sola. Salto su un autobus dopo aver studiato per ore il percorso, ma appena mi siedo realizzo che non so dove fermarmi. Mi sembra di essermi scordata l’inglese. La ragazza accanto a me mi aiuta e io non smetto di ringraziarla, mi sembra la persona più gentile del mondo. È tutto amplificato. Inizio a dedurre cose a caso: ” ad Harlem le persone si aiutano tra di loro”, mi dico. Esprimerò questo mio pensiero a tutti per qualche giorno.
T. ha un grande appartamento che dà su tutta West Harlem, ci vive con la moglie americana; qui si sposano giovani. C’è anche suo fratello minore, qui in vacanza per qualche giorno, che è corrucciato e scettico e terribilmente parigino. T. invece è cambiato. Mi chiede notizie dei nostri amici in comune a Parigi, sorride e scuote la testa, come se i loro drammi europei non lo riguardassero più. Parla di lavoro. È attivo. Mi fa vedere il suo gigantesco computer: “ho molto lavoro” dice, come se fosse una cosa buona. Che gli prende? Perché non si è ancora lamentato? Per fortuna suo fratello è permeabile all’energia Newyorkese, e mentre scendiamo in metro nel West Village per una cena informale di lavoro di T., si lamenta tantissimo, infondendomi un senso di familiarità. Un ragazzino che non ha più di dodici anni ci chiede dei soldi, gli sorrido: “perché ridi, smettila di ridere” mi dice a muso duro. Questo evento ci scuote molto.
Siamo in un ristorante vietnamita pieno di gente giovane. Appena arrivati ci piazzano sulla tavola dei grandi bicchieri pieni d’acqua, il che mi sconvolge. Scoprirò che le caraffe qui non esistono, e che nessuno beve acqua, ma questa non è la sede adatta per parlarvene. La conversazione verte sul cinema, quindi ne approfitto per chiedere: “mi sapreste consigliare delle belle sale qui a New York?”. La risposta è confusa, vaga, da parte di tutti: “Sì, c’è qualche bel posto, o non ci vado da mesi al cinema…dipende dal quartiere. Poi sai, qui costa 18 dollari entrare. Però se vuoi una volta ci andiamo” 18 dollari??? Dipende dal quartiere? In quel momento mi rendo conto di avere la nausea. Mentre torno a casa capisco di aver accusato il gelo, il jet leg, il mio primo bubble tea, i grattacieli e il prezzo del biglietto per il cinema. Passo la notte a vomitare.
…
T e il suo collega mi hanno mentito. I cinema a New York esistono eccome. Nei dieci giorni successivi mi sono informata, ho studiato. Oltre agli onnipresenti AMC, ci sono: i vecchi cinema eleganti dell Upper East Side, come il The Paris, che ancora non è diventato una banca, destino di molte vecchie glorie; una pletora di cinema dalle insegne luminosissime (quelle che piacciono a me) intorno a Times Square; tutta una serie di sale indipendenti e non a Brooklyn, che per me è ancora lontana; e grazie al cielo, la resistenza: i cinemini downtown, nel lower east side e nei village, ad est e a ovest. Sono entusiasta quando vedo che in uno di questi, il Village East by Angelika (chi è Angelika? Ancora non l’ho capito) passano Licorice Pizza, e scelgo lui.
Negli ultimi giorni non ho fatto che camminare: parto da East Harlem, attraverso Central Park, i cui laghi al momento sono congelati, e proseguo verso downtown. Mi sento tanto piccina. Midtown quando cala il sole è cattiva e spaventosa. È la New York che più somiglia a Gotham City ma i cattivi non sono nei vicoli, sono i negozi e i ristoranti: si può andare avanti per chilometri senza vedere un posto ospitale. Poi sono terrorizzata dall’entrare in un qualsiasi posto perché non ho capito come funzionano le mance, quindi anche se volessi fermarmi non saprei dove farlo, di panchine non ne vedo. Guardo e cerco di capire, ma non capisco. È tutto bellissimo ma è anche orrendo. Forse è quel fumo che esce dai tombini (sì, esiste davvero). Sto camminando da ore, mi arrendo e prendo un autobus sulla Lexington, quello che da East Harlem arriva fino al Village. Mi sono vestita carina per l’occasione perché voglio andare a bere qualcosa prima di entrare al cinema, l’idea di entrare in un bar mi riscalda e mi rallegra.
… Mezz’ora dopo…
Sono entrata in un bodega e ho chiesto se potevo comprare “one lucy”, che sta per sigaretta, la mia amica Tedye mi ha detto di farlo, ma il tizio dietro al bancone mi ha guardata come se gli avessi chiesto di vendermi un’arma. Sto ancora camminando e tra sushi bar rileccati e bar strapieni di cool kids ridanciani, non so dove andare. Finalmente approdo di fronte a Ray Pizza, una pizzeria al taglio gestita da messicani, e prendo una fetta untissima di “pepperoni” e due birre, quelle con la gradazione alcolica più alta, grazie. Rinvigorita dal calore latino di Ray Pizza, decido di andare all’Angelika in anticipo. La sua insegna è la più bella che io abbia mai visto, si staglia nel grande buio della Second Avenue, ed emana una luce tiepida. Vedo che per San Valentino passano Breakfast at Tiffany e immagino una sala di single in lacrime, e me con loro. Entro, e scopro che per Licorice Pizza lo sconto studenti non vale, quindi il biglietto costa 22 dollari. “Non ho la carta con me, posso pagare cash?” chiedo al ragazzo del botteghino mostrandogli un pezzo da 100. “Non accettiamo pezzi da 100 mi dispiace”. Mi sorge il dubbio, poi rivelatosi erroneo, che sia l’intera città a non accettare me. Osservo il mio riflesso “forse è colpa di questa pelliccia, è troppo vistosa”. Esco, ed entro in un negozio di liquori, l’uomo che lo gestisce ha gli occhi di un blu stranissimo che non dimenticherò mai. “Posso chiederle un favore?”
“Non faccio favori” mi risponde secco. Fantastico.
“Può cambiarmi questo pezzo da 100?”
“No”
“Va bene, la ringrazio”
“New York è piena di stronzi” mi dico, e ripeterò questa cosa a tutti per diversi giorni. La stessa storia si ripete per altri due negozi. “È che in città circolano molti soldi falsi” mi dirà L. qualche giorno dopo, davanti a un martini.
Entro trionfale all’Angelika e pago. Guardo incantata il bar elegante tipico dei cinema di inizio secolo ed entro nella sala, che è enorme, affrescata e decorata in uno strano stile moresco. Sento per la prima volta, in diverse ore, di trovarmi in un posto buono. Escluso da Ray, ovviamente. Sto guardando Licorice Pizza! A New York!
Trovo che il film sia irresistibile, persuasivo e caldo. È irresistibile e persuasivo, perché la loro è una storia che parla dell’America: i protagonisti sognano il successo, le provano tutte per raggiungerlo. Nel film appaiono un po’ goffi in questi loro tentativi ma nella realtà sono delle giovani star. Penso a T. e alla luce strana che aveva negli occhi mentre mi parlava di lavoro.
È caldo, perché oltre a esserci l’amore, semplicemente, c’è il sole. Vedere il sole di Los Angeles sullo schermo mi fa stringere il cuore. Cerco di non pensarci ma la domanda è lì, cresce, si agita dentro di me, cerco di reprimerla perché idiota, ma lei urla:
Perché sono venuta qui e non sono andata a Los Angeles?
Mi rispondo che per stare lì avrei dovuto avere una macchina. L’unica macchina che ho al momento è quella del desiderio. è davvero stupida e instancabile. Immagino un’altra vita a Los Angeles, in un’epoca non meglio identificabile: sto fluttuando su un letto ad acqua in bikini striminzito, lontano dal grigio di Midtown e dalle cassiere hipster. Poi mi viene a mente una delle mie canzoni preferite, “It never rains in Southern California”. Parla di un tipo che si trasferisce a Hollywood per inseguire il sogno ma poi tutto gli va male, incontra qualcuno che conosce e lo prega di non raccontare a nessuno di come l’ha trovato. Se a New York si sogna Los Angeles, a Los Angeles cosa si sogna? Questi sono i miei pensieri mentre esco dall’Angelika. Mi dirigo verso Uptown, e mi sento tanto felice. Ho pagato 22 $ per il biglietto, ma camminare è gratis.
❤ che bellezza..
La mia scrittrice preferita. Una delle più grandi della nostra triste epoca.
Brava Violetta!
Mi hai fatto passeggiare con te per New York