di Beatrice Salvioni
La mattina che mio padre disse: «Stasera ti porto alle giostre», fu la prima volta che lo vidi piangere.
Eravamo a tavola, ai nostri soliti posti. Io spalle alla finestra, avevo la faccia pesante di sonno, sulla schiena il sole di maggio. Lui aveva lo sguardo ficcato nel fondo della tazza di caffelatte e non diceva niente. Indossava la tuta da lavoro, rigida dallo sporco del giorno prima, grossi aloni imbiancati sotto le ascelle. La sera non era tornato in tempo per farsela lavare e quella di ricambio era ancora appesa allo stendino.
Mamma era a capotavola, faceva andare su e giù le ginocchia per tenere buona Maria che le si addormentava con le labbra attaccate alla tetta. Odiavo Maria perché era gonfia, rossa e la notte non ci faceva dormire. Ma’ le fece passare un braccio sotto, cauta, e girò la pagina del libro di antologia che teneva aperto sulla tovaglia piena di briciole.
«Ancora una volta» disse, la voce che saltellava al ritmo delle sue gambe.
«Non ho voglia, Ma’.»
«Sette volte la devi ripetere.»
«Non me ne frega di Napoleone.»
«Mica ti deve piacere. Devi solo imparare la poesia. Con un tre non ci torni. Poi vedi papà.»
Alzai lo sguardo verso di lui che fece un cenno distratto con la testa. Intinse il cornetto nella tazza, lo guardò a lungo prima di metterselo in bocca e masticare piano.
«Pa’, che vuol dire attonita?» dissi sperando di farmi guardare.
Mamma fece un respiro, di quelli lunghi. «Che ti frega di cosa vuol dire? Te la devi solo imparare, no?» sistemò la mano a coppa dietro la nuca di Maria, se la caricò su una spalla e prese a darle piccoli colpi sul dorso: «Ei fu siccome immobile dato il mortal sospiro…»
«Significa che non sai più come dire le cose. Che c’hai un gelo dentro che ti toglie anche la voglia di respirare» disse papà posando il cornetto.
Ignorai mia madre e mi girai verso di lui alzando il mento, cercando di farmi vedere grande: «Lo sapevo.»
Lui mi guardò, sorrise e disse: «Se prendi la sufficienza stasera ti porto alle giostre.»
Scattai in piedi, per poco non feci rovesciare la spremuta. Erano settimane che gli chiedevo di portarmici. Le avevano montate nello spiazzo dietro lo stadio, tutte le mattine ci passavo per andare a scuola e guardavo il Calcinculo, la ruota panoramica e poi il tiro a segno e il Tagadà. Erano spente a quell’ora ma di notte si vedevano le luci fin dal balcone di casa nostra. Mamma aveva detto «Non se ne parla.» A lei le giostre mettevano tristezza. Erano volgari, c’erano troppe luci, troppo rumore. E si finiva per tornare coi vestiti e i capelli che puzzavano di olio stracotto.
«Io e te» disse papà. «Solo noi uomini. Che dici?»
«Non dovevi fare il turno fino a tardi?» chiese mamma.
«Stasera c’è Franco. Stacco alle sei. Facciamo in tempo.»
«Come sta Giuliana?»
«Bene.»
«L’hanno dimessa dall’ospedale?»
«Due giorni fa.»
Giuliana, la moglie di Franco, era stata in ospedale per fare una cosa che si chiamava sgravarsi. Ne era uscita portandosi a casa una bambina che avevano chiamato Agnese.
Papà ci aveva detto che a lavoro, per festeggiare, Franco aveva preso dal magazzino le crostate confezionate, e una bottiglia di prosecco, calda. Avevano brindato tutti insieme. Non era proprio come rubare, diceva Franco. Bastava stare nel punto che le telecamere non vedono e ricordarsi di pulire tutto.
«Gli puoi portare il libro sui primi mesi? Giuliana me l’aveva chiesto. Sta sul mio comodino.»
«Non lo vedo oggi Franco, mi spiace.»
«Ma se hai detto che stacchi alle sei.»
Pa’ appoggiò i palmi sulla tavola, spostò all’indietro la sedia, si alzò. «Meglio che vado. Sennò faccio tardi.»
«Ti amo» gli urlò dietro mamma facendosi dondolare sulla sedia. Lui era già in corridoio.
Rimasi ad ascoltare il rumore di Pa’ che si metteva le scarpe, girava le chiavi. Gli corsi incontro.«Pa’, allora mi ci porti davvero alle giostre?»
La mano con cui teneva aperta la porta aveva le nocche livide e dure. Si voltò: gli occhi gonfi e le guance bagnate. Si passò la manica sulla faccia, disse: «Certo che ti ci porto. A noi non ci ferma nessuno.»
**
«Vuoi vedere il tuo Pa’ che batte tutti quanti?»
Papà stringeva il manico del martello. Guardava in alto alla campana di bronzo in cima alla colonna col faccione del clown. Poi di nuovo in basso, verso il ripiano da colpire. Il signore del circo, con le bretelle a pois e il trucco rovinato diceva: «Deve fare un bel suono, altrimenti non vale.»
«Glielo facciamo fare, vero che glielo facciamo fare?» disse Pa’ facendomi segno di venirgli vicino. «Stai qui che mi porti fortuna.»
Mi attaccai alla cintura della divisa da lavoro e strinsi forte i denti mentre lui sollevava il martello e lo abbassava di schianto. Il naso del faccione del clown in cima alla colonna si accese di un rosso intensissimo, la campana suonò da spaccare le orecchie e tutti quelli che erano in fila si misero ad applaudire. Guardai mio padre che restituiva il martello, diceva: «A me sembra di averlo sentito, che dici?»
Sollevai il mento, gonfiai le guance annuendo con forza. È il mio papà, volevo dire a tutti quelli che incontravo. Questo è il mio papà.
Andammo sugli autoscontri e sul Calcinculo. Sul Tagadà papà fece a gara a chi riusciva a stare nel mezzo della giostra senza cadere. Io avevo la schiena premuta contro la balaustra, le mani aggrappate ai tubi di acciaio gelato. Risi forte quando mi prese per mano e mi mise in piedi al suo fianco. «A noi non ci ferma nessuno.»
Quando scendemmo dovetti rimanere sdraiato per un po’ nell’erba, le braccia allargate e la testa che girava. Ero tanto sudato che mi sembrava quando l’estate cadi vestito in piscina. Avevo la gola secca, i capelli incollati alla fronte. Papà si piegò sulle ginocchia. «Te la magneresti una frittella ripiena?»
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«Quant’è che ti ha dato la maestra?»
Pa’ mi guardava mangiare, i gomiti allargati sul tavolo, il mento sopra i pugni.
La musica era forte e per sentirci dovevamo urlare. Il formaggio era rovente, filava tanto che dovevo tendere le braccia. «Nove. M’ha pure scritto bravo sul diario» dissi masticando a bocca larga per far uscire il caldo. Indicai col mento il vuoto davanti a lui. «Non hai fame?»
«Ho già mangiato.»
Sapevo che non era vero, ma non dissi niente.
«Ti stai divertendo?»
Annuii, la bocca piena di formaggio. Posai la frittella e guardai nel piatto. Inghiottii a fatica, poi feci quella domanda che tenevo in gola da tutta la sera: «Pa’, perché al lavoro non ci vai più?»
Le pieghe della sua faccia si sciolsero come sapone «Chi te l’ha detto?»
«La Giuliana. Ma’ oggi m’ha fatto andare a portarle il libro che voleva. Dice che è una settimana che non ci stai.»
Pa’ si nascose la testa nelle mani. «Tutta colpa dell’Agnese.»
Non capivo come poteva fargli perdere il lavoro una cosa che, come Maria, era gonfia e rossa e non sapeva nemmeno tenere su la testa da sola.
«Toccava a me pulire. Me so’ scordato.»
«E allora?»
«E allora ti ricordi quanto il tuo compagno ha messo le puntine sulla sedia della maestra e hanno dato la nota a tutta la classe? Quando cresci è il contrario. Qualcuno a cui dare la colpa lo hanno da trovà, anche se la colpa è di tutti.»
Pensai che nemmeno quel compleanno sarei riuscito a guidare il muletto, anche se Pa’ me l’aveva promesso. Poi pensai a tutte le altre cose che non avrei potuto avere.
«E che facciamo adesso?»
Pa’ cercava di sorridere, aveva le mani che tremavano. «Solo alla morte non si rimedia.»
**
Al tiro a segno davano in premio le gru. Grandi gru di plastica gialla che brillavano sotto le luci colorate. Avevano pure il braccio semovibile e le ruote cingolate. Un cartello diceva: Cinque palle, cinque euro.
Pa’ mi guardò, disse: «Vuoi provare?»
Alzai le spalle, pensai a mamma. Se sapeva che Pa’ non aveva più il lavoro sicuro diceva di non spenderli cinque euro per una gru che poi magari manco vincevamo.
L’uomo dietro il bancone masticava una gomma. Prese la banconota stropicciata e disse, con voce esausta: «Buona fortuna.»
Alla quarta palla avevo fatto cadere sette barattoli su dieci.
«Fa provare papà.» Allungò una mano, prese l’ultima palla. Chiuse un occhio per prendere la mira e lanciò. Trattenni il fiato. Ne buttò giù due. L’ultimo tremò appena. Si fermò.
Cercai di nascondere la delusione mordendomi il labbro. Dissi: «Andiamo via» come se fosse niente.
Ma papà si sporse in avanti, disse: «L’avevo preso. Non è caduto ma l’avevo preso.»
L’uomo del tiro a segno lo guardava senza parlare, continuò a masticare la sua gomma. «Cinque palle, cinque euro.»
«Un tiro solo. Per il bambino. Un tiro e vedi che te lo butta giù.»
«Cinque palle, cinque euro.»
«Fa niente Pa’, andiamo via.»
«Che ti costa un tiro solo? Fammi ‘sto favore.»
«Cinque palle, cinque euro.»
«Andiamo, Pa’.»
Mi prese la mano, disse solo: «Va bene. Andiamo.»
Quando si voltò l’uomo della gomma disse sottovoce: «Va’ un po’ che gl’insegni a tuo figlio.»
Pa’ s’irrigidì. Disse: «Quando dico corri, tu corri.» Fece uno scatto e afferrò una delle gru appese al tetto del tiro a segno.
«Corri!» urlò scoppiando a ridere.
«Fermatelo!» gridò l’uomo della gomma.
«Corri, Bruno, corri. Non ti fermare.»
Ci facemmo largo tra la folla davanti allo zucchero filato e alla giostra dei cavalli. Pa’ mi prese sotto un braccio, mi fece saltare oltre la staccionata verso i campi d’erba incolta, seccata dal caldo.
Non sentivo più il fiato e nemmeno il sonno o la tristezza. La mia mano era calda e bagnata dentro quella di Pa’. Da una parte stringeva me, dall’altra la gru, il braccio di plastica gialla gli batteva contro la coscia. Correvamo dentro la notte, nel buio dei prati di periferia pieni dell’urlo dei grilli.
Pa’ rideva della sua risata che era come le campane dell’Angelus. Ridevo anche io, gridavo: «A noi non ci ferma nessuno.»
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