«Qualcuno può rispondere?».
«Vado io».
«Se è tua zia dille che non ci sono».
«E dove sei».
«Inventa qualcosa».
«E che cosa».
«Che ne so, dille che sono dal dottore».
«Perché dal dottore? È un controllo o non stai bene?».
«Ma non importa, dille che sono dal dottore e basta».
«Come non importa, se me lo chiede cosa rispondo?».
«Allora dille che è solo un controllo».
«E che controllo è? Devi fare anche le analisi del sangue?».
«La spesa, sono andata a fare la spesa».
«Sei uscita a piedi o in macchina?».
«Rispondi a quel telefono».
C’era sempre una scusa da inventare, una scenetta da improvvisare. E se non ne immaginava i dettagli, se non dava un nome alle cose, se non ne sentiva il sapore, quella bugia evaporava tra le sue labbra. Si confondeva, inciampava, diceva troppe parole o pochissime, ripeteva le stesse sillabe. Quando squillava il telefono, sentiva il sudore ghiacciarsi nell’incavo delle ascelle, tra la pelle e la maglietta di cotone.
Pensava a questo Tommaso, poche settimane fa, mentre sua moglie, sdraiata sul divano, guardava un film che avevano visto insieme al cinema, vent’anni prima, e gli chiedeva se si amassero ancora.
Pensava a questo Elena, l’ultimo giorno di liceo, quando alzò la testa dalla frase di Kurt Cobain che stava incidendo sul suo banco, guardò i suoi compagni e realizzò che non li avrebbe più visti e finalmente, dopo cinque anni, per la prima volta, sorrise.
Pensava a questo Giulio, anni dopo, al funerale di sua madre, mentre stringeva la mano a persone di cui non conosceva il nome, facce senza una collocazione, ignoti col cappotto scuro, scarpe lucide e una frase sul tempo che mitiga il dolore.
La cornetta rovente gli avvampava la mano e l’orecchio e la guancia. Non gli era mai piaciuto il modo in cui gli adulti si dicevano le cose. Non gli era mai piaciuto il modo in cui gli adulti si tenevano stretti e non si dicevano le cose. Con le dita allungava il cavo attorcigliato, cercando il nodo da districare. Non sono bugie, diceva la madre, sono frasi che i grandi si scambiano per non risolvere un problema, o per trascinare una decisione, a volte solo perché sono stanchi o annoiati. Poi aggiungeva che era troppo sensibile o debole o pensieroso e che i suoi amici erano tutti più furbi di lui e gli avrebbero mangiato in testa. La cornetta prendeva fuoco. Bruciavano le ciglia, i capelli, la peluria sotto al naso. Bruciavano i mattoncini di lego, i pennarelli sul pavimento, le figurine di Baggio e Del Piero, la slitta di Babbo Natale. Bruciavano i baci sugli occhi, le dita incrociate, i salti nelle pozzanghere, le canzoni da ballare sfiorandosi.
Pensava a questo Luca, all’appuntamento delle 16.30, mentre faceva un minuscolo orecchio alla prima pagina del suo fascicolo e il chirurgo gli illustrava la cura sperimentale che in Svizzera stava ottenendo risultati incoraggianti.
Pensava a questo Sofia, lunedì mattina, mentre si sforzava di nascondere i suoi figli durante un colloquio per un part-time a tempo determinato, con il sudore che si ghiacciava nell’incavo delle ascelle, tra la pelle e la camicetta di seta.
Non pensava più a niente Filippo, mentre alzava la cornetta.
«Pronto?».
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