Avete presente quella sensazione: quando sei stato a una festa, facciamo di proporzioni più che notevoli, facciamo con presenza di musica troppo alta per prevedere interazione verbale, facciamo condita con droghe dalle posologie più varie – preferibilmente sintetiche; quella sensazione, quando raccogli la giacca e tagli la folla in direzione opposta al suo moto, quando superi la porta e c’è il buio e c’è la calma, ci sono le macchine parcheggiate una dietro l’altra lungo la strada, ci sono i rumori sempre più lontani, a volte le pozzanghere, a volte gli alberi con le foglie che dondolano nell’aria di un’ora incerta, a volte un cane che si gratta contro un copertone in attesa che il padrone si accorga della sua assenza, a volte anche qualcuno che vomita; quella sensazione fresca sulle braccia che ricorda gli androni di certi palazzi nei centri storici del sud Italia, con i corrimano di legno, l’accesso al cortile e sempre qualche grado in meno rispetto alla strada – più simile a una specie di sollievo che alla conseguenza di uno scarto termico; quella sensazione di spazio, moltissimo spazio, spazio a perdita d’occhio, mentre qualcosa nel colore dell’aria suggerisce che tra poco starà albeggiando e occasionalmente una bottiglia si spacca, qualcuno ride, le gambe sono molli e puoi respirare molto più a fondo di quanto riusciresti a fare in qualsiasi altra circostanza; quella sensazione quando cerchi le chiavi nella tasca e senti la consistenza del suolo attraverso le scarpe, quando lungo l’orizzonte il blu degrada in azzurro e non c’è presto e non c’è tardi. Avete presente quella sensazione?
O quell’altra: quando sei in macchina nel traffico e nell’etere è in corso un complotto per cui tutte le stazioni radio, in base a motivazioni note solo a un ristrettissimo gruppo di eminenze grigie, si oscurano a tempo indeterminato sostituendo i notiziari e le selezioni nostalgiche con diverse modulazioni di fruscii. Quando sei lì, a girare manopole e schiacciare bottoni, e all’esterno i fumi si alzano dai sistemi di scarico, i finestrini si abbassano, i gomiti si affacciano e le sigarette si accendono. C’è chi si attacca al clacson, chi parla al telefono, chi aspetta e basta, galleggiando in un’inesorabilità ovattata dal sentore dei piatti che, dietro persiane accostate, vengono poggiati su tovaglie di plastica. Ci sono i pensieri che si dilatano e si trasformano in macchie pesanti e viscose, i tentativi sempre più fallimentari di reperire forme di intrattenimento, altre manopole e altri bottoni, e poi di colpo una rassegnazione tranquilla che prima di poter essere riconosciuta si evolve in qualcosa di stupido e poi ancora tranquillo e poi ancora stupido ma leggermente più di prima e via via così finché il presentimento esaltante che tutto sia possibile non deflagra tra lo sterno e l’esofago e le stazioni radio si risintonizzano tutte insieme sullo stesso pezzo tragicamente pop, il più commuovente dei pezzi pop, il più vero dei pezzi pop, il più imperdibile dei pezzi pop dell’intera storia dei pezzi pop. Dura un attimo, poi tornano i clacson. Avete presente quella sensazione?
Ma torniamo alla festa di prima, di nuovo rinchiusi in grandi spazi poco illuminati. Succede, di solito, che a un certo momento si materializzino uno o più individui all’apparenza amichevoli, all’apparenza animati da sincero desiderio di socializzazione, all’apparenza già visti in situazioni analoghe e dunque amiche. Succede che, trasportati dalla possibilità di aver condiviso in passato esperienze indimenticabili, seppure non del tutto certi di averlo effettivamente fatto, si inizi a tentare un avvicinamento. Succede che la conversazione sia in prima battuta affascinante, con racconti di attività artistiche praticate in prevalenza all’estero, stili di vita resistenti alle pressioni sociali e convinzioni granitiche in ambito politico e alimentare. Succede che inizino a comparire sporadici e sospetti riferimenti ai concetti di costanza, coerenza, sacrificio, perseveranza e successo. Succede che il dialogo si trasformi rapidamente in monologo, e che nel giro di pochi minuti si faccia largo sgomitando la presa di coscienza che il o i soggetti in questione siano portatori di quell’epos di matrice ultraoceanica basato sull’idea di vivere il sogno. Succede che questa illuminazione inneschi due reazioni contrarie di uguale intensità: quella di alzarsi e andarsene indignati per essersi lasciati abbindolare e quella di rimanere solidi e immobili a manifestare il diritto alla vita di categorie umane forse meno eroiche, o forse no. Succede che, molte ore dopo, quello che resta è solo molto mal di testa e un bicchiere pieno di cenere. Avete presente quella sensazione?
Ecco, La la land è così.
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