di Andrea Zandomeneghi
Il manifesto della stilizzazione è Kaboom di Gregg Araki. Una commediola adolescenziale dalle tematiche scontatissime: pansessualità, sostanze stupefacenti, società segrete, poteri sovrannaturali, college. Una commediola del cazzo ma interessante perché c’è la chiave di volta lampante, il tratto peculiare, della stilizzazione: la riqualificazione dello stereotipo di genere (solo nei prodotti di genere c’è la pura stilizzazione) grazie al «salvagente della forma» – Natalino Irti torna comodo nei momenti più inaspettati, elabora questa roba interpretativa in riferimento al nichilismo giuridico contemporaneo; però poi la puoi applicare nei più disparati ambiti.
Che fa di preciso Araki? Quale è di preciso la concezione poetica del film? Lui continua il suo percorso – raggiungendo qui l’apice, ma già Doom generation fa scuola in proposito – di nullificazione dell’umano esistenzialistico. L’esistenza non c’è, c’è solo la storia (come in The tree of life c’è solo l’esistenza e non c’è la storia, l’unica storia è l’essere gettati nell’esistenza); la psicologia c’è, parrebbe esserci, ma non è reale: è tutta falsificata, plastificata, tipizzata. Non è psicologia, sono moduli psicologici. Araki cioè (idem in una certa serialità: True Blood, American horror story et coetera) schiaccia l’interiorità drammatica fino a renderla perfettamente bidimensionale, lavora poi le figure risultanti con un azzeccatissimo piglio parodistico: non c’è un solo istante che esista autonomamente, ogni inquadratura, sequenza, dialogo è a due voci e due significati: l’uno narrativo o descrittivo, l’altro citazionistico (ma severamente implicito, mai protagonista) – è nella duplicità delle voci che sta il fulcro della «parodizzazione» (Bachtin docet), qui però la parodizzazione è mimetica, si mimetizza al massimo grado.
Un trionfo della non profondità ironica e autoironica – ma prepotentemente affabulatoria e dinamica, mai intellettualizzata o riflessiva o autocompiaciuta – obbiettivata nella sola fattualità narrativa (obbiettivata «pragmaticamente» avrebbe detto Pasolini, che in alcuni periodi subiva una fascinazione smodata per questa parola): non c’è metanarrazione. Nemmeno una virgola di meta-qualcosa. C’è un riciclare tutte le più commercialmente – la stilizzazione è costitutivamente commerciale – abusate suggestioni teen degli ultimi trent’anni cucinandole nel modo più sopraffino – ma nuovamente ipermimetico! – e impeccabile dal punto di vista della fattura formale, cesellandole (regia, fotografia, montaggio, sceneggiatura) con la più squisita sapienza artigianale.
[…] non c’è più nessuno), scenicchia parola del 2018 per l’Accademia della Crusca, Zandomeneghi In fuga dalla Bocciofila (e il film più bello della storia del cinema?). A questo punto della storia succede qualcosa: e […]