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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Juste la fin du monde | Da qualche parte

17 Dicembre 2016 di Redazione

Di Matthew Licht

Spesso i film in cui non succede niente sono quelli che si ricordano meglio. Sono belli anche film lunghi e monotoni che poi finiscono con massacri, scontri tra Lamborghini e Maserati, orge, messe nere, esplosioni e musiche dei Pink Floyd. 

In questo film non succede nulla, ma è il nulla nullo, non quello Zen o nichilista. E finisce con un numero di finto blues-gospel, piagnucoloso ma ballabile.

Un giovane dagli occhi dolci, umidi e tristi, con una interessante cicatrice sulla guancia da baci, sta morendo. Vorrebbe dirlo alla famiglia, che non vede da un po’ di tempo. Ma forse non sa come. Sta viaggiando in aereo. Porta il berretto da baseball. Brutto segno, come quando si mette a battere su una tastiera di computer.

Sua madre ha le palpebre laccate di blu. Prepara un pranzo per la riunione di famiglia. Sembra un pasto francese, non la poutine québecoise che di solito viene accompagnato da un six-pack di Molson’s Bras d’Or a testa. Un pasto da consumare guardando smandibolando e ruttando la partita di hockey su ghiaccio in tivù. Qui invece si filosofizza sul dolce.

Secondo la didascalia iniziale, la vicenda è ambientata da qualche parte.

Volevo vedere Juste la fin du monde in versione originale anche per il grezzo dialetto Québecois. Invece niente. Nemmeno l’ombra di una foglia d’acero. Neanche una goccia di maple syrup.

Il giovane moribondo trasognato e sensibile forse è uno scrittore, uno sceneggiatore, un filosofo. Finisce ogni tanto sui giornali. Bazzica ricettivo gli aeroporti all’alba. Ciò fa incazzare il fratello più grande. Gli urla di stare zitto, che non vuole sapere nulla di stronzate del genere. Per fargli capire che dice sul serio, accelera. Però non manda sms esistenzialisti mentre guida.

Alla fine del pasto, quando il romantico giovane perseguitato dalla morte dice agli stretti parenti che deve andare via, ma che tornerà più spesso a trovarli, e per scrivere, parlare, eccetera, il fratello violento esplode. Vorrebbe mollargli un pugno. Magari aggiungerebbe un’altra cicatrice a quel volto fotogenico. Sulle nocche della zampa alzata e tremante dalla brutalità contenuta a stento si vedono delle croste. Chissà quanti pugni ha mollato alle pareti di casa, quel fratellone irrequieto e frustrato che magari vorrebbe essere un fantasma poetico negli aeroporti all’alba ma non può perché la realtà lo costringe a fare un lavoro palloso e poco creativo. 

La cognata bruna, timida carina e balbuziente riesce a convincere il facinoroso marito a non massacrare di botte il fratellino empatico.

La sorella bionda e cannaiola è sexy da morire. Mi ricorda Mireille, la sorella grande in una serie di lezioni di francese girata per la tivù, le vicende di una tipica famiglia francese…  Qualche volta, Mireille andava a nuotare alla piscina comunale. Erano scene meravigliose, edificanti, nutrienti, istruttive. Ricorderò per sempre la frase: Mireille est sportive.

In una scena del film, la sorella bionda sexy si spoglia, ma è tutta sfocata, un fantasma fatto di luce solare. Invece si vede bene il volto leggermente sudato, dalla perfetta barba da efebo, del fratello tornato a casa per dire ai suoi che deve morire.

In questa e tante altre riprese, sembra che sia stato spalmato miele sull’obbiettivo. O quel succo di acero biondo, di qualità inferiore.

La carta da parati della casa dove si svolge la non-storia è bellissima. Squisito anche il tessuto blu a fiori di un materasso polveroso che sniffa nostalgico il protagonista. La sorella bionda e sexy vive in cantina. Disegna al modo dei cannaioli adolescenti. Anche lei è divorata dalla rabbia. Però è strano: all’inizio del film, ride ironica per il malessere famigliare. E fuma.

Un flashback su due giovani epiceni che amoreggiano sembra suggerire un amplesso incestuoso tra il poeta-filosofo-scrittore e la sorella bionda sexy. Gli amanti fumano erba, pippano coca e si mandano amorevolmente affanculo. Il fratellone rabbioso annuncia al fratellino che il suo compagno di giochi e sballi  adolescenti è morto di cancro.

Il fratellone violento accende un bianco, denso chiodo di bara e dice, “Non fumo, ma quando fumo, fumo.” O qualcosa del genere.

In Canada si fumano sigarette chiamate Craven “A”. Che nome ganzo.

Tanti anni fa fumavo. Ho smesso. Non solo perché le sigarette farebbero morire, ma perché fanno anche fare gesti pretenziosi e vuoti. 

Matthew Licht

Dicembre 15, 2016

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Postato in: Lo sfogone Tag: Craven A, Matthew Licht, xavier dolan Fai un commento

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