«Stai bene?»
Il Campa si sporgeva dalla porta del bagno.
«È il bagno delle femmine», ha detto la Manna.
«E tu che ci fai nel bagno delle femmine?»
«Sei uno stronzo».
«Dai, stai bene?»
La Manna si è asciugata i gomiti bagnati.
«Qualche graffio».
«Allora muoviti, dobbiamo andare».
La Manna ha guardato l’orologio.
«Devo prima fare una cosa»
«Che devi fare?»
Si è avvicinata allo specchio e ha fatto una smorfia con la bocca per controllare di non avere niente tra i denti, poi ha risposto:
«Devo cercare una persona».
«Simona Mannaroli che esce dalla 3° A e cerca una persona, ecco perché grandina a giugno».
Il Campa si è abbassato in un inchino, allungando il braccio fino a sfiorare il pavimento.
«Vaffanculo».
«Dove devi andare?»
«Quinta C».
«Facciamo le scale insieme».
Ogni corpo persiste nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme finché forze esterne a esso applicate non intervengono a mutare questo stato.
Da quando aveva memoria, non c’era stato alcun evento in grado di pungolare la sua inerzia. Da quando aveva memoria, era riuscita a conservare il suo stato di moto o di quiete, contro ogni principio della dinamica.
“Cercami a ricreazione: ti devo assolutamente parlare”.
Una sola frase l’aveva stanata: non poteva più opporre resistenza.
Quattro, cinque, sei. Mentre saliva le scale, la Manna si è concentrata sul piede, tallone-pianta-punta, tallone-pianta-punta, poi sui tendini della caviglia, strii-stroo-strii-stroo, quindi è salita fino ai muscoli del polpaccio, poi le ginocchia, stroc-stroc, le cosce, i glutei, l’inguine, il bacino. Il corpo si muoveva nello spazio distribuendo perfettamente il suo peso, un equilibrio che la Manna non era in grado di dominare, un automatismo che le permetteva di sembrare una ragazza come tutte le altre.
Essere normale. Andare al centro commerciale il sabato pomeriggio, scaricare qualche brano da Napster, masterizzare una compilation magari, scrivere una dedica sulla copertina del cd con l’Uniposca rosa.
«Ci devi mettere un pezzo dei Radiohead, sennò non è una vera compilation».
«Come scusa?»
«I Radiohead, mettine uno da Ok Computer e vai sul sicuro».
Essere una qualunque ragazza di sedici anni. Non desiderava altro, la Manna. Essere accettata così com’era, con il suo mondo che straripava nell’immaginazione.
«Devi iniziarla alla grande, una compilation, deve catturare l’attenzione. Anche il secondo pezzo deve essere all’altezza, poi ci metti qualcosa di più tranquillo, sì devi risparmiare cartucce, ci sono molte regole da rispettare eh, com’è che diceva, sì ecco, la creazione di una grande compilation richiede più fatica di quanto sembri. Mettici anche i Verdena però. E i Sigur Rós».
Essere normale così da poter essere speciale per qualcuno.
Undici, dodici, tredici.
Si metteva i capelli troppo lisci dietro le orecchie, la Manna, mentre saliva le scale. Adesso non faceva più caso ai movimenti delle articolazioni, il suo corpo era verde, era erba, era edera, poteva andare dove voleva, arrampicarsi sulle pareti e attaccarsi ad ogni superficie, poteva espandersi e nascondere una distesa di erbacce rinsecchite dal sole, sepolte sotto la neve.
Ventuno, ventidue.
«Non contare gli scalini, sembri ancora più strana».
«Come scusa?»
«Stai contando ad alta voce».
Ventitré, ventiquattro, venticinque.
Una spalla ha sfiorato la sua. La Manna non ha fatto in tempo a girarsi che è arrivato un colpo anche all’altra spalla. La Manna si è appoggiata al corrimano. Si è voltata. Le sagome scorrevano rapide lungo la scalinata. Erano scimmie e serpenti e antilopi, le ombre si allungavano fino al soffitto, la interrogavano, la schiacciavano. La Manna ha ripreso la sua strada. Ventinove, trenta. Ma ovunque si girasse, gli occhi la cercavano, le entravano nel naso e nelle orecchie e scavavano per cercare qualcosa nascosto dentro di lei, un segreto o forse un sogno, o un incubo.
«Secondo te mi stanno fissando?»
«Forse sanno di quando sei andata in Presidenza».
«Io non sono mai andata in Presidenza».
«Così si dice».
«Si dice male».
«Quindi non hai detto a nessuno quella storia dei compiti?»
«Non c’è nessuna storia».
«Non dire cazzate».
«Non so di cosa parli».
«Forse ti stanno guardando perché sei caduta in cortile».
«Già».
«Forse hai qualcosa in faccia».
«Ho qualcosa in faccia?»
«Forse ti guardano perché sei carina».
«…».
«O forse ti guardano perché stai parlando da sola».
Albini, Alessandrini, Ballerini, Berti, Bertolacci, Bianchi, Cappelletti, Checcucci, Colombino. Ci ha messo qualche istante la Manna a ricordarsi che il Campa non era sul registro di classe. Faceva l’appello quando qualcosa le sfuggiva dalla testa, dalle dita, dall’angolo dell’occhio. Ripeteva i cognomi dei suoi compagni, in ordine alfabetico, una litania necessaria, che la riportava al presente. Qualcosa di familiare, di quotidiano, che le ricordava dov’era. Nessun Campatelli, no, è vero, nessun Campa. Diluiva i pensieri la Manna e li faceva gocciolare sui suoi foglietti, riempiva taccuini di frasi strette e dure che si intrecciavano con la trama della carta, poi prendeva quello che restava e lo accartocciava, faceva piccole palline di materia cerebrale e le lanciava nel cestino o le nascondeva in fondo al cassetto.
La Manna ha guardato giù e ha pensato che ogni corpo lasciato libero di cadere è soggetto all’accelerazione di gravità. Qualsiasi corpo sulla Terra: uomo, donna, animale, pianta, oggetto, senza alcuna distinzione. Senza alcuna salvezza.
«Stai bene?»
«Come scusa?»
«Se stai bene. Sei bianca come un cencio».
«Sì sto bene».
«Hai una cartina?»
«Fatti un giro».
«Oh, stai calma!»
Era stanca adesso la Manna. Stanca di andare e anche stanca di restare. Voleva una scorciatoia, un passaggio segreto, una carta delle probabilità che la portasse al via, senza passare dalla prigione e da Parco della Vittoria. In quel momento l’ha vista, la porta, la porta disegnata sulla porta del bagno, quello in fondo al corridoio che le piaceva perché era più piccolo ed intimo, e perché ci andavano meno persone. Universo parallelo. La Manna ha spinto la porticina e finalmente l’ha trovato: occhi verdi e grigi, lontanissimi l’uno dall’altro, una faccia seria e nervosa. Era proprio lì, alla fine della scalinata, accanto al mezzobusto del marchese (una statua decrepita di dubbia provenienza che raffigurava un uomo non ben identificato. Lo chiamavano ‘il marchese’ perché aveva l’abbozzo di un mantello, nient’altro. Cosa ci facesse in un ex-monastero, vallo a sapere. Il marchese se ne stava nella sua nicchia, a fissare, giudicare, soprattutto origliare. Conosceva il taciuto di molti, custodiva le angosce di tutti). Manfredi si è levato il berretto dei New York Yankees mostrando le lunghe orecchie, poi è balzato verso il corridoio. La Manna ha fatto in tempo a vedere la sua coda bianca sparire dietro l’angolo, quindi ha fatto un salto e gli è corsa appresso, senza pensare a come avrebbe fatto poi a tornare indietro.
Per ogni forza che un corpo A esercita su un altro corpo B, ne esiste un’altra, uguale e contraria, che B esercita su A.
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