di Diego Rossi
“E fatevi il Nome del Padre, porca puttana!”
Don Bastiano
La chiesa appare in bilico sul ciglio d’un verde pianoro; alle sue spalle, oltre la struttura mezza franata del convento, il cobalto del cielo sprofonda in un vallone immobile d’afa.
Ci siamo arrampicati sull’altura nell’ora più violenta, sudati e caracollanti, gli zaini con dentro acqua e panini a rimorchio, dopo aver attraversato una solfatara spietata dove il sole e l’olezzo di rancido c’hanno quasi stramazzato. Francesca, che mi teneva dietro agile, s’è impalata appena scorto il profilo sbocconcellato delle rovine: Uh, ganzo!, ha detto, Passami il binocolo; poi s’è chetata di botto, sopraffatta dall’aura del luogo. Non c’è nessuno, qui: ronza qualche insetto, sì, ma una quiete di sonno stagna su tutto. Non s’incontra anima da prima della solfatara, quando ci siamo immersi nel fresco della forra passando di fianco a una minima cascatella che ruzzolava fra rocce muschiose e piante. Francesca mia, non so come dirtelo, ma il binocolo devo proprio essermelo scordato in macchina.
Siamo esploratori di location, visitiamo i luoghi dove hanno girato i film che compongono il nostro pantheon cinematografico. In mattinata, per arrivare quassù, abbiamo deviato di qualche chilometro per vedere il passaggio a livello dove Mario e Saverio assistono impotenti allo smistamento dei treni prima d’infilarsi nella sterrata che li condurrà a Frittole nel millequattrocento (quasi millecinque). Naturalmente abbiamo anche aspettato che le sbarre si chiudessero, per ricreare quanto più possibile quel mood. Ci siamo sentiti anche un po’ scemi, è vero, quando l’estone panciuto sull’autoarticolato in attesa c’ha squadrato di traverso mentre ci scattavamo un selfie davanti al casotto del casellante; ma tant’è.
Qui però, al cospetto del rifugio di Don Bastiano, di gente che ci squadra non ce n’è. Da qui, su quest’immota spianata, sotto questo cielo che sembra un fondale dipinto, in prossimità del portale d’ingresso alla chiesetta scoperchiata, intravediamo all’interno un grosso fico: è quello – proprio quello – l’albero sotto il quale il prete brigante sedeva, oppure ce n’hanno messo uno ad arte per gli spicciolati turisti che salgono quassù tra queste rovine? Chissà. Ma in fondo cosa cerchiamo, noi?
È questa, forse, una specie di nostalgia dei luoghi in cui non siamo mai stati, di quei luoghi che appartengono a un passato condivisibile e ci legano più di quanto crediamo. Sì, ritrovarcisi in mezzo è un po’ come tornare a casa, e farlo insieme è come riunire una famiglia immaginaria.
Ma quale binocolo, dai su, entriamo, dico a Francesca prendendole la mano; attraversiamo la soglia della chiesa e ci sediamo ai piedi del grosso fico, obliterando il confine tra il reale e il sogno, tra il presente e il passato. Se ci fosse Don Bastiano ci si potrebbe sposare qui, ora, le dico. Lei non risponde, sfila un panino dallo zaino e gli dà un morso stringendo gli occhi. Ma che c’hai messo, la cipolla?, dice, Come faccio a sposarti se continui a mettermi la cipolla nel panino? Ecco: un’altra cosa di cui mi devo ricordare.
Diego Rossi vive in Toscana. Suoi scritti sono comparsi su Narrandom, Pastrengo, A few words, 8×8 racconti la voce, nelle antologie Obtorto Collo e De Sprofundis (Valigie Rosse) e nel Repertorio dei matti della città di Livorno (marcos y marcos). Collabora con la Scuola Carver di Livorno e fa parte del gruppo elettro-acustico Il Ritorno di Carla.
<– Leggi il precedente Bellissimo della Bocciofila
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