C’è quella cosa che dicono tutti, quando prendono un cane. Quella specie di elegia della razza da cui, i soggetti depositari del ruolo padronale, proprio non riescono a esimersi. Dicono: “Non è meraviglioso? È un setter irlandese/pastore bernese/lupo cecoslovacco! I veterinari dicono che sono animali intelligentissimi/affettuosissimi/fedelissimi!”. Ogni volta che sento qualcuno lanciarsi in questo genere di conversazione, non riesco a fare a meno di pensare a come risulterebbero le stesse frasi se applicate a cuccioli di un’altra specie. Quella umana, per esempio. “Non è meraviglioso? È norvegese purissimo!”, annuncerebbero fieri i genitori, “Puzzano un po’ di merluzzo, ma ho letto su internet che non si ammalano mai!”. Oppure: “Visto che roba? Giappone misto Nordafrica, un incrocio raffinatissimo. Quando crescono tendono a manifestare qualche crisi di identità, ma l’addestratore ci ha detto che se prese per tempo non sono niente di preoccupante”.
Questo penso, e sono in coda per assistere a un film-evento in un bel cinema del centro. Laurie Anderson, artista performativa statunitense, nota in Italia prevalentemente come autrice del pezzo in sottofondo alla prima, indimenticabile, campagna ministeriale sull’Aids (quella con l’alone viola che identifica gli infetti) ha fatto un documentario sul suo cane.
La campagna ministeriale di cui sopra
Laurie Anderson, oltre ad aver popolato il subconscio di ogni cittadino italiano in possesso di un apparecchio televisivo nel 1990, è stata anche orgogliosa proprietaria di un Rat Terrier dal nome vezzoso. Un cane a cui, negli ultimi anni di vita, ormai cieco, è stato insegnato a dipingere e a suonare il piano, oltre che a produrre sculture di plastilina e a praticare l’arte in genere. Sulla morte di questo cane, Lolabelle, Laurie Anderson ha fatto un film, e io sto andando a vederlo.
È bello il film di Laurie Anderson, somiglia a certi documentari di Herzog in cui i fatti più strani vengono spiegati come se fossero perfettamente normali. Il fatto strano, qui, è la morte. C’è una voce fuori campo che mi ricorda, per l’incedere e l’accento, quella delle signore americane mentre, sfogliando dizionari bilingue da viaggio, chiedono informazioni in piazza della Repubblica. È quella di Laurie Anderson, che per evitare il doppiaggio ha recitato tutto il testo del film in italiano. Dice tante cose che non sapevo, anche tante che sapevo, ma quelle che non sapevo mi piacciono di più. Ad esempio.
Francisco Goya ha dipinto, sulle pareti della Quinta del Sordo a Madrid, quattordici scene che riassumono tutti i suoi fantasmi e le sue paure di vecchio. Tra donne assassine, sabba satanici, divinità divoratrici di figli e visioni di morte, c’ è una grande distesa d’oro, su cui sembra si stia per scatenare una tempesta. Perduta nella vastità dell’immagine, la testa minuscola di un cane. Le orecchie basse, il corpo assente, il muso alto, in attesa.
C’era questo artista che tagliava le case a metà. Prendeva una di quelle villette di legno della periferia residenziale americana e la segava a metà, finché le pareti non iniziavano a inclinarsi, e una parte pendeva da un lato e l’altra da quello opposto. Questo signore, poi, faceva anche buchi enormi negli edifici, e per un po’ di tempo ha diretto un ristorante. I genitori avevano divorziato e il fratello gemello si era suicidato, gettandosi dalla finestra del suo appartamento. Rovinato dal cancro al pancreas, è morto con a fianco due lama tibetani, che nel momento in cui ha perso conoscenza hanno iniziato a urlargli nelle orecchie “Gordon, sei morto!”, in modo che ne fosse proprio sicuro.
Certi bambini muoiono ancora piccolissimi, apparentemente senza nessun motivo, dormendo. Alcuni credono che sia perché sognano di essere di nuovo nell’utero. Fluttuando in una placenta immaginaria, si dimenticano di respirare e se ne vanno così.
Da piccola, Laurie Anderson ha quasi ammazzato i suoi due fratelli minori. Nell’inverno spietato dell’Illinois, aveva deciso di portarli a scivolare su un lago ghiacciato, spingendoli nel passeggino. Il ghiaccio si è rotto e loro sono sprofondati nell’acqua. Laurie si è dovuta tuffare due volte per riportarli a galla entrambi, semi congelati e quasi annegati. Tornata a casa, fradicia, con le labbra blu e convinta che la madre avrebbe finito il lavoro a schiaffi, era così debole che non aveva nemmeno la forza di mentire. La madre l’ha guardata, calmissima, e ha detto “non pensavo che nuotassi così bene, brava”.
Quando la madre di Laurie Anderson è morta, delirando, vedeva stuoli di animali sul soffitto della stanza. Questa cosa, però, non le sembrava strana né le metteva paura. Le ultime parole che ha detto sono state “ditelo agli animali”, senza specificare cosa.
Poi si, a un certo punto c’è la considerazione sulla superiorità dei Rat Terrier sulle altre razze canine. Sui pastori tedeschi, stupidi soldatini teutonici, e sui barboncini, bestie insicure e tanto bisognose d’amore da risultare ridicole. Faremo finta, però, che non sia mai successo. D’altra parte, Laurie Anderson e il suo compagno di una vita, Lou Reed, non hanno mai fatto dei figli.
Io un cane non ce l’ho, confinata nella dittatura degli appartamenti di città, degli spazi piccoli, dei quarti piani senza ascensore. Nemmeno un gatto, un canarino, un criceto. Nemmeno un pesce rosso. Quando morirò, quindi, non mi rimetterò alla natura selvaggia, neanche a quella da compagnia. Al massimo alle piante da balcone, ai cactus mignon che si comprano al mercato e poi crescono tutti storti, alle orchidee di plastica perennemente fiorite, ai pothos che se ti dimentichi di annaffiarli sopravvivono lo stesso, aggrappati alla vita con le loro sottili radici bianche.
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