Le piastrelle del bagno sono esagoni bianchi e blu. Francesca prova a contarle, le piastrelle, seduta sul water, con le gambe ciondoloni e i piedi che sfiorano il pavimento. Arriva fino a venti, a volte venticinque, poi gli occhi si confondono e ricomincia. Il rubinetto del lavandino gocciola. Otto, nove, dieci.
«Ce l’ho!»
Sabrina spalanca la porta senza bussare. Sabrina non bussa mai.
«L’ho trovato!»
«Cosa?»
Francesca è in piedi con un salto, tira su le mutande.
«L’ultimo Cioè. Però non possiamo ritagliare niente, devo ridarlo a Giada».
Si siede sul pavimento a gambe incrociate, la schiena appoggiata alla vasca.
«Chi c’è nel poster?»
«Dylan».
Sabrina sfoglia le pagine, si ferma, torna indietro, punta l’indice sul titolo.
«Senti questa: è vero che lo sperma ai ragazzi esce solo di notte?»
«Che schifo!»
«Non fare la schizzinosa!»
Francesca gira il rubinetto dell’acqua fredda, prende la saponetta e strofina le mani. Poi chiude a chiave la porta.
«Se mia mamma ci scopre si incazza».
«Esagerata».
Francesca si inginocchia accanto a Sabrina, allunga il collo sul giornale.
«Ma è vero?»
«Cosa».
«Dello sperma».
«No. Esce sempre».
«Tutto il giorno?»
«Sì».
«Ah. Che altro?»
Le sigarette le fumavamo di nascosto, sul balcone, mentre i genitori cenavano in cortile, con i loro amici, e facevano brindisi e si attardavano con le storie di quando erano ragazzi. Rizzavamo le orecchie per ascoltarle, quelle storie, e ridevamo senza fiato, guardandoci negli occhi, alzando le sopracciglia fino al cielo, strizzandoci un braccio o un polpaccio, incredule che quelli fossero proprio i nostri genitori. Poi correvamo in bagno a lavarci i denti, alitavamo sul palmo della mano e sentivamo il fresco della menta ancora mescolato al fumo. Ne avremmo fumate altre di sigarette, durante la notte, su quel balcone, contando le stelle e raccontandoci chi saremmo diventate, un giorno, da grandi.
«È vero che durante le mestruazione non si possono toccare le piante?»
«Non è vero!»
«Però non si può fare la salsa di pomodori».
«Ma che dici».
«Giuro, me l’ha detto nonna».
«Non ci credo».
«Non ci fa toccare nemmeno i barattoli vuoti se abbiamo le mestruazioni».
«E che può succedere?»
«Dice che la salsa diventa rancida».
«Non lo sapevo. Che altro?»
«Cosa vuol dire baciare alla francese? Questa la so».
In motorino ci andavamo di pomeriggio, quando il caldo dava una tregua, quando la luce ci prometteva l’immortalità. Cantavamo forte, in motorino, allargavamo le braccia, suonavamo il clacson senza una ragione. Ci stringevamo più forte se c’era vento o se volevamo confessare un segreto. Lo urlavamo nelle orecchie, quel segreto, nelle spalle, nelle ossa, nei caschi che sbattevano, nello specchietto retrovisore. Ci addentravamo nei vicoli, nei parcheggi, nelle strade sterrate cercando quei motorini, da qualche parte, quel Phantom, quel Booster, quello Scarabeo, quella Vespa. Ogni frenata parlava una lingua segreta, ogni impennata o svolta improvvisa nascondeva un codice per decifrare desideri, speranze. Quando lo stesso scooter passava sotto casa due volte, di certo, era un gesto d’amore.
«Dai che vuol dire?»
Sabrina tira fuori la lingua facendola oscillare e roteare, poi si avvicina alla faccia di Francesca e le lecca la guancia. Francesca la spinge indietro.
«Non mi piace come si baciano gli adulti».
Sabrina ride. Francesca asciuga la guancia con il bordo della maglietta.
«Secondo te come fanno nei film a baciarsi senza essere sposati?»
«Non bisogna essere sposati per baciarsi».
«Ma almeno dovrebbero amarsi».
«Sono solo attori».
«Per me quando si baciano hanno nel mezzo una lastra di vetro sottilissima così le labbra non si toccano».
«Questa devi scriverla a Cioè!»
«Non lo so se voglio baciare qualcuno con la lingua».
Le cassette le compravamo sulle bancarelle. I titoli scritti a macchina, le copertine fotocopiate. Ci sdraiavamo sulle mattonelle bianche con i rombi verdi concentrici, le gambe alte, i piedi appoggiati al muro, le cuffie sulle orecchie. Ascolta questa, no ascolta tu questa. Le birre le bevevamo ai giardini dietro la scuola. Erano calde, le birre, tutte le volte. Le bottiglie tremavano sul tavolo del biliardino. Alle feste il bacardi breezer, la vodka alla pesca, il rum e pera. In porta non voleva starci nessuno.
«Luigi lo baceresti eccome!»
«Non fare la stupida!»
«Vuoi dire di no?»
«Ieri mi ha salutato. Davanti al bar. È passato e ha fatto così».
Francesca si alza, fa due passi, guarda Sabrina e alza il mento.
«Forse è lui che vuole baciare te!»
«Che state facendo con la porta chiusa a chiave?»
La madre di Francesca abbassa la maniglia due, tre, quattro volte.
«Non starete mica fumando?»
Inspiriamo, uno due tre quattro.
Espiriamo.
Le lacrime erano nebbia. A ogni sei grassa, manico di scopa, hai i baffi, hai i denti storti, hai i brufoli, hai setole da cinghiale, ti vesti da povera, ti puzzano le ascelle, sei una secchiona, sei una testa vuota. A ogni brutto voto. Scarpa sciolta. Doppia punta. Matita spezzata. A ogni Pasquetta con la pioggia, Natale senza albero. I sorrisi erano libellule. A ogni abbraccio, carezza, parola sussurrata, a ogni tuffo o salto o sabato pomeriggio. A ogni passeggiata, insieme, in un posto qualunque.
L’acqua ristagnava nel fosso. Le mele marcivano nelle cassette di legno impilate al muro del garage. Le zanzare si appiccicavano alle gambe, le ortiche graffiavano le caviglie. Grattavamo i ponfi fino a farli sanguinare. Non potevamo avvicinarci, al fosso. Lo avremmo fatto lo stesso.
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