Avevo sedici o diciassette anni quando vidi un manifesto funebre con il mio nome stampato sopra e mi convinsi di essere morta. Luglio. Come ogni anno trascorrevo l’estate con i nonni, giù in paese. Le campane delle otto non si erano ancora sentite. Percorrevo in bici la lunga strada secondaria che costeggiava il paese. In realtà non era così lunga ma la pendenza la faceva sembrare infinita. Per inciso, non mi infilavo mai nella strada principale perché lì sì che il dislivello era impressionante e a metà salita ero disfatta, spompata, boccheggiante, con la faccia paonazza, a chiazze, scendevo dalla bici e la spingevo a mano, la maglietta appiccicata alla schiena e le ascelle sudate. Mi vergognavo della mia scarsa prestanza fisica, di fatto le mie inclinazioni erano spiccatamente indirizzate a qualsiasi cosa si potesse fare da fermi, magari seduti.
Tornando a quella mattina. Pedalavo lentamente, con la consueta estrema fatica. Di solito incontravo qualcuno che mi apostrofava con un signori’ o annuiva per salutarmi; quel gesto, che sembrava un movimento distratto o involontario del capo, racchiudeva un tacito patto di benestare che così si può riassumere: sì io lo so chi sei, io ti conosco, so da dove vieni, so chi sono i tuoi genitori, i tuoi fratelli, i tuoi zii, i tuoi cugini, i tuoi nonni, i tuoi antenati; so chi frequenti, con chi ti fermi a parlare, chi saluti e chi non saluti. Io so a chi appartieni. Mi lusingava essere osservata, anche con una certa curiosità. In città nessuno si interessava a quello che facevo o pensavo e di certo nessuno si preoccupava della mia appartenenza. Quella mattina invece non incrociai anima viva. Nemmeno un gatto o un cane o un sorcio, niente e nessuno.
Imboccai via delle tre case dove la strada si incurvava in un tornante e scendeva verso la piazza del paese. Girai il manubrio bruscamente, assestai la direzione e l’equilibrio, le ruote presero velocità. Assaporai il vento e alzai i piedi dai pedali, quando con la coda dell’occhio i sensi percepirono qualcosa, riconobbero qualcosa: un susseguirsi e intrecciarsi e arrotolarsi di segni e lettere e macchie. Alla mia destra si allungava il muro in tufo con affissi i manifesti mortuari.
È mancata all’affetto dei suoi cari
Anna Romano
Ne danno il triste annuncio i familiari ed i parenti tutti
I funerali avranno luogo domani 24 luglio alle ore 18.00 presso la Chiesa di San Giuseppe Artigiano
Non fiori ma opere di bene
Anna Romano era il mio nome. Il mio nome era appiccicato al muro in tufo dietro la curva. Lo vedo come se fosse oggi. Ripensandoci, il mio nome doveva essere in Arial, sì proprio in Arial, dimensione novanta o cento o forse qualcosa in più, niente di fantasioso o elegante o solenne, proprio un Arial, che brutta fine. Rilessi l’annuncio. Controllai il nome. Anna Romano. Prima cosa da evidenziare: nessuna età indicata. Com’è che non c’è nessuna età, mi interrogavo, scrivere l’età è d’obbligo, la gente si ferma sempre a leggere l’età del defunto e commenta se è giovane se è anziano se è di mezza età, confronta l’età del defunto con la propria, eeh aveva dieci anni più di me, otto meno di me, ecc. ecc., qui no, nessuna età. E poi nessun nome di un familiare o parente, controllavo, per sicurezza, no nessun nome, come mai, cos’è questa discrezione, come si può sapere chi è questa Anna Romano, a chi appartiene, perché non si cita nessuno.
Mi guardai intorno sperando di poter chiedere informazioni. Nessuno. Non avevo incontrato nessuno. Mi resi conto che dalla sera prima non parlavo con qualcuno.
Un tarlo si insinuò: e se fossi io?
Chiaramente l’omonimia era la spiegazione più logica e plausibile, anzi, l’unica spiegazione, cos’ero altrimenti, un’entità che vagava tra i vivi perché incosciente di essere morta? Incosciente poi è un termine che non si può usare, è la parola sbagliata, dove finisce la coscienza dopo la morte, svanisce? Fantasma, ectoplasma, anima, ecc. ecc. cos’ero? Ovviamente l’omonimia era l’unica spiegazione, ma vedere il mio nome su quel muro aveva mosso qualcosa, non so come spiegarlo, aveva fatto tremare pensieri che a sedici o diciassette anni di solito non si contemplano o si conoscono e si rilegano sotto un tappeto. E che in realtà nemmeno crescendo impariamo ad affrontare.
E se fossi io? Cosa avrei voluto dire, chi erano le persone a cui volevo bene. Chi volevo vicino a me. (Avevo sofferto?). Cosa avevo fatto per gli altri, cosa avevo lasciato. Cosa volevo lasciare. Come volevo andarmene. (Volevo andarmene?). Cosa avrei dovuto fare o dire. (E perché solo opere di bene, io i fiori li volevo, eccome se li volevo). (E come sarà la bara? Che abito mi metteranno?). Come soffocare la mancanza e l’assenza. Riuscire a vivere, dopo.
E se fossi io? Me lo chiedo ancora oggi che sono passati trent’anni, o forse non me lo chiedo abbastanza. Me lo chiedo ancora oggi che sono passati trent’anni e non ho imparato a lasciare andare.
Quel giorno vidi un manifesto funebre con il mio nome e mi convinsi di essere morta. Rimasi impalata, due, tre minuti, forse cinque. Poi un impeto di rabbia e incoscienza. Strappai la carta dal muro, con movimenti bruschi e scomposti e violenti, la polvere mi entrava sotto le unghie, un paio si spezzarono, la vista del sangue mi fece girare la testa, mi accanii fino all’ultimo frammento. Singhiozzavo come una scema davanti a un muro in tufo. Poi presi la bici e iniziai a pedalare con tutta la forza che mi restava nelle gambe finché non incontrai una persona che mi salutò con quel gesto del capo, quasi distratto e involontario, e mi chiese perché stessi piangendo.

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