Come posso dire «amore»? Come un lago che straripa, acqua scura e melmosa, sporcando panchine e chioschi? Lo sento crescere inevitabile e lento, spinto da ghiacciai e piogge così lontane da crederle irreali. Raschia per giorni, per settimane, per mesi: un vecchio argine cede e il lago è fuori e dentro e dappertutto. Per non annegare afferri pali e ringhiere, spingendo sott’acqua vecchi e mamme con passeggini. Non te ne frega niente, vuoi solo rimanere a galla.
Non è un affare gentile, l’amore, né bello. Io lo so: quando scade la visita e devo portar via le donne, mi si stringe il cuore. Scalciano e sputano e ci maledicono, ma non le denunciamo mai. È più facile aspettare: si calmano, poi vengono ogni due settimane, poi ogni mese e poi per niente. Alcune ci regalano pacchi di sigarette e noi usciamo a fumare, borbottando: «dieci minuti». Quando torniamo le vediamo che si risistemano la gonna e gli uomini quasi sorridono. Sorrido anch’io, come un magnaccia.
Altre, quelle con gli occhi chiari e cattivi, che sembrano gatte arrabbiate, vengono invece per anni, per decenni interi, ogni settimana, sempre in orario. E sono loro quelle di cui abbiamo paura perché non esiterebbero a ucciderti se credessero, anche solo per un attimo, che esistesse un modo di portarlo via da qui libero, vivo. Ovviamente il modo non c’è; lo sappiamo noi e lo sanno loro. Portarlo dove?
Nell’unione giovanile ci dicevano che il comunismo si serve in molti modi, e io ci credo. Per questo non mi lamento mai dei lunghi turni, del freddo, né della malinconia. Per questo a volte prendo le sigarette, ma non esco. Guardo l’ospite che mi fissa in silenzio, il prigioniero occhi a terra, e resisto alla voglia di alzarmi. Resisto perché sono nemici della Polonia, perché se oggi stiamo così e non meglio è anche colpa loro. Una piccola dose di colpa, microscopica, ripartita fra tutti i prigionieri di questo campo e degli altri campi coperti di neve che sono infiniti. E infatti non urlo, non li picchio, non denuncio nessuno. Cerco di essere giusto e non menare prigionieri a caso come fanno alcuni dei miei superiori. Ma a volte prendo le sigarette e non esco. Me ne accendo una, dico: «grazie compagna» e mi metto a guardare fuori dalla finestra.
Ascolto tutto, come devo. Dicono:
«Non si capisce di cosa parli».
«Te l’ho detto: parlo di noi. Di te e di me».
«Ma cosa vuol dire ‘va tutto bene’, cosa vuoi sapere?»
E, se chiudo gli occhi, non so più chi sia l’ospite e chi il prigioniero. Forse l’amore è questo? Essere legati e voler scappare? Tirare come un lupo preso alla tagliola e amare il ferro che stringe e cerca il sangue? Non voler essere in nessun altro posto al mondo e augurarsi che questa baracca di legno sprofondi all’inferno?
«Non tornare, se mi ami, non tornare».
«Ti ricordi quando eravamo a Parigi?»
«No, non ricordo nulla. Nulla».
Queste sigarette mocne sono terribili. Cosa non darei per delle sigarette russe. Per essere a casa ad ascoltare Varsavia che scorre via leggera e triste.
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