di Viola V. Giacalone
Ho pensato molto a come inaugurare la nuova stagione di cinemini, e credo non ci si modo migliore di farlo se non con grande sincerità: l’inverno a Parigi è stato buio e difficile. Uggioso.
Quando torno in Italia per le vacanze e mi lamento, nessuno mi crede. Mi dicono che è impossibile stare male a Parigi, perché è una città fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni, è la patria dell’amour, del burro, del burro usato in modo abusivo durante il sesso (Maria Schneider non voleva girare quella scena, lo si riconosca o inizio a perdere i capelli per lo stress) e anche perché do ai miei racconti dei titoli che fanno pensare che qui sia uno spasso (vedi: l’estasi di essere a Parigi e di amare i film, l’ultimo cinemino).
Quando cerco di spiegare che Parigi è una città cara, con un tempo di merda e che la vita degli studenti poveri è uguale dappertutto, la gente cambia argomento. Penso che a tutti piaccia sognare, quindi non insisto.
Un po’ di giorni fa mi ha chiamata Stefano, della Vodafone, per propormi una nuova offerta e io gli ho risposto: “La ringrazio ma io sto a Parigi” e il suo tono di voce si è fatto subito freddo: “Ah, lei sta a Parigi. Allora mi immagino che non gliene freghi niente delle nostre offerte. Arrivederci” e mi ha riattaccato, offeso, prima che io potessi spiegargli che il mese scorso ho mangiato solo uova e riso per risparmiare.
È successo lo stesso con Enrico di E-Dreams e Giulia di Tim. Insomma, sono tornata in Francia a gennaio con l’ulteriore peso del senso di colpa di non godermi abbastanza la fortuna che ho. In questi casi di estremo disincanto, è necessario fermarsi un attimo e tornare alle origini. Cosa mi dava gioia quando sono arrivata? Dove mi sentivo bene? Dove mi dirigo sempre anche senza pensarci?
Odéon è come un’isola situata a metà di quello che potrebbe definirsi il “fiume” Boulevard St.Germain.
L’ isola Odéon è contornata da 3 sale, l’UGC Odéon, l’MK2 Odéon, l’UGC Danton. C’è anche spazio per un bellissimo bar elegante, con poltroncine di velluto e colonne dorate, frequentato soprattutto da critici cinematografici e vip del quartiere, dove servono sangue umano in calici di cristallo.
L’isola Odéon è sempre affollata perché contiene: l’entrata e l’uscita della stazione delle metro Odéon, un banchetto che vende caramelle, uno che vende giornali, due alberi, quattro lampioni, e una statua di Danton.
La statua di Danton è il punto in cui convergono tutte le persone che hanno fissato con qualcuno per andare al cinema. Deve esserci una legge fisica universale che fa sì che nessuno si incontri a Odeon, molto romantico certo, ma più che altro infernale.
Questa è una conversazione telefonica tipo che si può sentire intorno alla statua:
“Sono alla statua dove sei?”
“è impossibile, sono alla statua anche io, non ti vedo”
“Ma come non mi vedi? Sono proprio davanti al cinema”
“Sì ma quale? Il Danton, l’MK2 o?”
“Il Danton. No, ho detto Danton non Odéon. Senti se sei alla statua ti cerco”
A volte quelli a cui hanno dato buca si riconoscono perché appartenenti alla stessa specie e decidono di unirsi:
“Anche a lei…”
“Sì anche io”
“Cosa dovevate andare a vedere?”
“L’ultimo di Terrence Malick. Lei l’aveva già visto, forse avrei dovuto prevedere che….”
“Non aggiunga altro. Senta, se vuole ho due biglietti per Il lago delle oche selvatiche. La critica è stata piuttosto severa ma ne hanno lodato la fotografia”
“Sì, lo voglio.”
E così via.
A me piace la confusione, mi piace la gente. Mi piace sentirmi al centro della situazione, e Odéon è il centro di qualcosa, anche se non si sa bene di COSA. Avete presente quel tipo di posto? Nonostante il fatto che le sale di Odéon appartengano a delle grandi catene multisala, io sono come le lucciole, ne sono attratta perché hanno delle grandi insegne luminose ignoranti, come i teatri di Broadway.
Mi piacciono anche perché sono sale da weekend, dove vanno tutti, il genere di cinema in cui si comprano i poc-corn, in cui vanno le coppie al primo appuntamento e i ragazzini. Però i ragazzini di Parigi hanno tutta un’altra apparenza rispetto a quella che avevamo noi quando uscivamo in gruppo al cinema Marconi, o forse è solo l’aria che si respira a Odéon a renderli cinematografici.
L’altra sera mi ero annoiata delle mie lamentele e sono andata sull’isola per vedere Piccole Donne con A. La sala era inclinata, come se ogni poltroncina mi invitasse a rilassarmi.
Penso che Greta Gerwig abbia fatto un ottimo lavoro, e non le ho rimproverato nemmeno per un attimo di averci offerto un “drammone” main-stream: era tanto che non mi succedeva ma ho pianto durante tutto il film, e quando non piangevo ridevo (dell’accento francesissimo che Garrell sfodera nel dire “California” ad esempio o dell’inutilità del personaggio del padre nell’economia del film) e penso che questo sia un ottimo risultato per un film, commuovere e far sognare.
Non voglio dire che sia un film semplice, al contrario la riscrittura delle sorelle è molto interessante e introduce delle nuove dinamiche. C’è una scena, che forse andrebbe chiamata “La Scena” che mi ha disturbato molto: Jo si chiude in soffitta per giorni per scrivere il suo libro. Semplice scrivere con così tanta dedizione nelle campagne americane dell’800, ho pensato, quando l’alternativa era passeggiare o girarsi i pollici e la FOMO ancora non si sapeva cos’era. Ciò non toglie che lei scriva in una situazione di difficoltà e che, in conclusione, ce la faccia.
Lasciato A. dopo il cinema, ho camminato sul lungo Senna e ho pensato che Parigi è bellissima, che le sue luci hanno ancora il potere di incantarmi anche se ne conosco l’inganno.
Penso che sia uno spreco non lasciarsi andare all’incanto e che i problemi sono una materia prima preziosa per le storie. Cinemini doveva continuare! Ed eccoci qui.
VIOLINAAAA✌️❤️
Nonostante il tuo scritto sia personale,mi piacciono le tue considerazioni.
Brava, sembra di essere lì con te
Belllo vio mi piace leggerti!!