Il tipo del video aveva una faccia terribile: guance scavate, occhi rossi. Si svegliava nel cuore della notte e correva ad accendere la radio, girava la manopola in preda a una crisi, finché non trovava della musica (che però dal video si intuiva soltanto). Allora si sdraiava a terra, chiudeva gli occhi e capivi che era morto.
– Cristo, aggressivi questi del Ministero –
– Lo fanno per la tua salute – disse Beppe e tutti scoppiammo a ridere.
Misi via il telefonino. Il casolare era rimasto uguale. Per arrivarci non c’erano strade, solo un sentiero da fare a piedi: quasi 5 chilometri fra abetine abbandonate, piene di tronchi caduti. Aveva tutti muri in pietra, spessi almeno un metro, e intorno solo cinghiali e lupi: il posto ideale.
Beppe si avvicinò all’amplificatore e girò la manopola. Si senti il clic. Dagl’angoli della stanza salì il ronzio delle due casse e tutti ci sedemmo in semicerchio, proprio davanti, cadendoci addosso, cercando di avvicinarci il più possibile alla preda desiderata (uomo o donna). Silvia aveva dei capelli biondissimi che le coprivano gli occhi chiari, nascondendole ad arte un naso troppo. Spinsi Beppe di lato e con un tuffo disperato, che mascherai da tentativo comico di arrivare ad uno degli ultimi cuscini, ero al suo fianco. Mi accarezzò i capelli, spettinandomi appena e, con la coda dell’occhio, vidi Beppe che gesticolava un atto sessuale fra l’indice della mano sinistra e il pollice e l’indice chiusi a cerchio della mano destra, strizzandomi l’occhio, indicandomi a Giulio e Marco accanto a lui che se la ridevano beati. Io lo mandai affanculo in silenzio, alzando il dito medio di entrambe le mani.
Silvia era una veterana, ascoltava musica da molto più tempo di me, nonostante avesse la mia età. Conosceva i nomi di tutte le band, comprese quelle che non le piacevano, compresi i pianisti classici e i direttori d’orchestra. Sapeva riconoscere un brano dal primo riff di chitarra e, fra noi, era la più politica: quando eravamo tutti sfiniti, all’alba o ancora dopo, e spegnevamo tutto, raccoglievamo le bottiglie vuote e i posaceneri stracarichi di sigarette, lei continuava a parlare, a progettare proteste e insurrezioni alle quali nessuno avrebbe partecipato. Io le davo sempre ragione, ero l’unico che la seguiva fino alle conseguenze estreme delle sue teorie sulla musica: insegnamento obbligatorio nelle scuole, orchestre sinfoniche pagate dallo stato, musica gratuita nei locali per i giovani. Gli altri la prendevano in giro:
– E magari ci saranno pure concorsi ministeriali per compositori, eh Silvia?
E tutti a ridere, con gli occhi assonnati, pronti a rifare la camminata della sera al contrario, verso la mattina, la città, le radio dove tutti parlavano e basta, lavori noiosi come l’impiegato o ancora peggio l’addetto al fast food.
Quella sera il primo CD l’aveva portato Giulio: – È forte ragazzi, ve lo dico: Ska-Punk americano fine secolo, Against All Authority. Guardammo Beppe, unico autorizzato a toccare lo stereo, mettere il CD, alzare il volume e premere play. Silvia mi prese la mano emozionata, la serata partiva bene. Dalle casse eruttò una batteria impazzita che raddoppiava i rullanti e la grancassa a un ritmo forsennato; e una chitarra elettrica, o forse un sintetizzatore, che ululava per uno, due, tre minuti, senza smettere mai. C’erano un paio di ragazzi nuovi che avevano già chiuso gli occhi e dondolavano la testa a tempo, pronti per partire. Poi un colpo di basso ci accarezzò lo stomaco e tutti ondeggiammo all’indietro, felici di essere lì. Beppe imitava il bassista, piegando la testa e impugnando un immenso basso immaginario. Partirono due o tre fischi dalla folla e lui si inchinò. Dopo dieci minuti di Ska-Punk, i più esperti si alzarono e iniziarono a ballare, agitandosi tutti, muovendo le braccia e i piedi a ritmo, saltellando nei momenti di tensione, sciogliendo ogni rullata in controtempo con le braccia al cielo. I novizi li guardavano estasiati, appoggiati al muro nella penombra. Era la prima volta che vedevano qualcuno muoversi a tempo di musica: sembravano marziani.
– Cosa pensi quando balli? – mi chiese Silvia, urlandomi in un orecchio.
– Mi sembra di avere un corpo tutto mio
Mi guardò negli occhi, sorrise, si alzò e mi trascinò in mezzo agli altri. Saltammo, saltammo a occhi chiusi per dieci minuti buoni, finché il CD si arrese.
Tutta la stanza si sedette e fu come se avessero spento il compressore a quei pupazzi pieni d’aria che si vedono lungo l’autostrada. Silvia mi abbracciava contenta, qualcuno aveva gli occhi lucidi, tutti cercavano qualcuno per vedere se sentiva lo stesso e la risposta era sempre sì. Quelli del Ministero non sbagliavano a chiamare i concerti “orge”: c’era l’intimità dell’essere nudi nel saltare allo stesso ritmo. Allora Beppe prese un CD dalla libreria: ogni libro ne nascondeva uno. Silvia era convinta che era sbagliato metterli alla rinfusa, avremmo dovuto trovare un ordine: i cantanti italiani con gli autori italiani, la musica classica con i classici, il rock inglese con gli autori inglesi, ma Beppe l’accusava di fascismo intellettuale, la chiamava degna compare della classificazione decimale Dewey che il Ministero aveva imposto in ogni scaffale di ogni casa:
– Gli album sanno dove devono andare, lo capiscono da soli, senza cartellino – e faceva finta di scatarrare. Silvia allora si arrabbiava, lo chiamava anarco-insurrezionalista, nichilista antiscientifico. Se non intervenivo, potevano andare avanti ore a discutere, mentre tutti aspettavano solo che Beppe mettesse il prossimo CD.
Con un’intuizione da musicodipendente consumato, Beppe tirò fuori Riot on an Empty Street dei Kings of Convenience. Spalancò la finestra, lasciando entrare l’aria fresca della notte. Spense la lampada e la stanza annerì. Alzò il volume quasi a tre quarti, si distese con la testa sulle ginocchia di qualcuno e chiuse gli occhi. Homesick. Le due chitarre, le voci roche, quel ricamo d’arpeggi in minore, tutto parlava di malinconia per una casa che non c’era più, un mondo che nessuno in quella stanza aveva conosciuto. Eppure la tristezza era vera, la potevo toccare, mi riempiva. La vedevo calmare la rabbia, passare sulla stanza come un soffio.
Alle quattro del mattino qualcuno si era addormentato, altri ascoltavano accarezzandosi a vicenda, nel buio. Silvia teneva la testa appoggiata sulla mia spalla e io la mano sotto la sua maglietta. Ci baciammo, si baciavano tutti: i due ragazzi nuovi, le varie coppie stabili. Non c’era molto di erotico, quasi mai qualcuno finiva col fare l’amore. Erano baci naufraghi, salvagenti per l’effetto down che ci riportava a terra proprio mentre dalla finestra l’orizzonte schiariva. Sembravamo più cani che si leccano che amanti. Ma a me andava bene, non ero ingordo: pur di averla, andava bene. Era tutto perfetto.
– Cazzo
– Cazzo, cazzo, cazzo
Mi affacciò alla finestra anch’io: una ventina di poliziotti con quelle loro cuffie imbottite.
– Via, via, dalla cucina nei boschi! Sparite.
Scappano tutti e nel casino qualcuno tira giù uno scaffale della libreria e dai libri rotolano fuori i CD.
– Perfetto, perfetto!
Io, Silvia e Beppe siamo gli unici rimasti a raccoglierli e rimetterli nei libri, preoccupati che non si graffino. Corro in cucina a prendere una scatola per portarli via e, fuori dalla porta, vedo altri poliziotti. Aspettano solo di sfondare e prenderci a manganellate. Fanno quasi ridere con quegli auricolari sproporzionati, sembrano Topolino. Torno di là e guardo Beppe e Silvia.
– Insomma, finisce così
Né io, né Silvia rispondiamo.
– Col cazzo che mi prendono in silenzio
Lo vediamo buttarsi sull’ultimo scaffale, tirare via decine di volumi. Stringe tra le mani un vinile, a occhio anni ’70. Ne abbiamo visti una decina in tutta la vita. Accende lo stereo, il giradischi, alza la manopola al massimo, le casse ronzano da paura nel silenzio. War di Edwin Starr ci spacca quasi i timpani: Beppe si mette a ballare davanti alla finestra. È bellissimo visto così, controluce, con l’alba alle spalle, gli occhi chiusi. Si tira giù i pantaloni e mette il culo fuori, agitandolo a ritmo.
Mentre sento la porta che scricchiola e cede sotto il peso dei calci, Silvia trema e non riesco a capire cosa stia dicendo: popolo? potere? Penso al bosco fuori, alle trombe irriverenti di Starr che inondano le cime degli alberi, a questo volume si potranno sentire a un chilometro da qui. Poi un dolore alla schiena mi spegne: tutto torna silenzioso.
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