A voi piacciono le dinamiche aziendali? A me sì.
Sono una delle cose che mi rilassa di più al mondo, sul serio.
La dimensione piramidale del potere, simile a quella delle antiche civiltà imperiali, la disposizione altamente significativa degli spazi, la scansione produttiva dei tempi.
Mi tranquillizza in particolar modo la qualità preimpostata delle relazioni, il sapere come rivolgersi a qualcuno prima ancora di conoscerlo. L’inflessione della voce, la scelta del lessico, la selezione degli argomenti di fronte a un mocaccino alla nocciola: comodi comodi e pronti all’uso come una pila fumante di vestiti stirati.
Ma andiamo con ordine.
Il primo film della Higher Ground Productions, la casa di produzione dei coniugi Barack e Michelle Obama, vincitore dell’Oscar 2020 per il Miglior Documentario e distribuito da Netflix, l’ho visto al computer scaricato coi torrent. Questo nonostante sia tenutaria di un account sulla seducente piattaforma di Los Gatos (falso: questo nonostante la mia amica C., in una luminosa vigilia di Natale, mi abbia donato la password del suo profilo benedicendomi con infinite ore di oblio per le quali non riuscirò mai ad esserle abbastanza grata).
Si potrebbe dire che un aneddoto del genere non veicoli alcun significato particolare; tuttavia si potrebbe anche dire che, al contrario, sottintenda molte cose. Sottintenda tutto.
L’apripista dei progetti per lo streaming promossi dalla coppia presidenziale più amata di tutti i tempi dopo i Perón, i Kennedy e gli Andreotti, è firmato dai registi Steven Bognar e Julia Reichert, il risuonare dei cui nomi provoca nei non addetti ai lavori la tipica reazione: chi?
In realtà i due avevano già ben presente la Factory del titolo, uno stabilimento della General Motors confinato ai margini sud-occidentali dell’Ohio, perché alla sua chiusura nel 2009 ci avevano girato un altro documentario, prodotto dalla HBO, che era arrivato comunque agli Oscar ma con meno clamore. Dieci anni più tardi, dopo che 3000 lavoratori sono stati rimandati a casa, la fabbrica viene comprata da un colosso cinese del vetro per automobili e rimessa in attività con personale in parte autoctono e in parte letteralmente importato dalla Cina.
Va da sé che i livelli sono parecchi: il relativismo culturale, fare le cose in oriente VS fare le cose in occidente VS fare le cose in occidente come si farebbero in oriente, la guerra ai sindacati, il mobbing, gli straordinari come rito devozionale; quanto è eccezionale il popolo americano, quanto è eccezionale il popolo cinese; il sospetto poco rassicurante che i nuovi eden produttivi dove delocalizzare senza pietà siano dietro casa nostra. Nonostante questo, mentre tentavo di bilanciare l’audio in modo che le casse del computer non friggessero fino alla morte, erano solo due i pensieri su cui riuscivo a focalizzarmi.
Uno: è nei party aziendali che si racchiude l’essenza dell’aziendalità. Nella tizia conciata come una torta che cinguetta l’inno della compagnia, una solfa stranamente commuovente che parla di alberi in fiore, primavera in arrivo e gioia all over. Nella cena servita dal catering di lusso ma non troppo di lusso, su piatti che a fine serata verranno riposti ancora sporchi in ceste di plastica e sterilizzati chissà dove. Nei vestiti presi a nolo. Nell’amministratore delegato che, scortato dalla segretaria, consegna il cadeau di rito agli impiegati leggendone i nomi da una lista. Nell’animazione col karaoke. Nel palcoscenico per le esibizioni dei dipendenti, coi costumi cuciti a casa e le coreografie provate per mesi. Nel trenino su YMCA. Nei matrimoni in azienda. Nei discorsi di fine anno. Nei bagni dotati per l’occasione di asciugamani di spugna usa e getta invece delle normali salviette in carta riciclata. Nelle pomiciate interdipartimentali sdraiati sui cappotti. Nella certezza limpida come un laghetto montano che non vi sia nell’intero universo niente di più prossimo al puro concetto di società e di psicosi al tempo stesso.
Due:
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