di Andrea Angaroni
Il cielo oggi è una pesca da sfiorare con le dita: striato di azzurro, dolce, adagiato sui rami della città. Alte e lontane, guardo le scie di un aereo solcare la pelle del cielo, che s’arrossa, illividisce. Qualche stella nel cielo, il velo distante della luna: è quasi notte a Kutaisi.
È quasi notte e io sono solo al bar del Ponte Bianco. Aspetto qualcuno.
La brezza che spira leggera dal fume disegna un velo di condensa sulla mia birra. Gelata, tiepida, calda: aspetto qualcuno.
I rumori del bar, le voci dei ragazzi, il sussurro dei lampioni, il tintinnare di vetro dei bicchieri mi ricordano di quando ero alto, slanciato da terra, di quando avevo braccia lunghissime, rami: di quando ero un albero.
Mi ricordano di quando ero un albero di Kutaisi, in Georgia, spiovente sul bar del Ponte Rosso e sui suoi clienti intenti a vedere il Campionato Mondiale di Calcio. Sì, era il 2018 e io ero alto, slanciato sul mio tronco ruvido come la lingua di un gatto, senza occhi o pupille per vedere ma con foglie per sentire la brezza del fiume, radici per capire, linfa per rabbrividire di un cielo a portata di mano, da
sfiorare, da cogliere come un frutto maturo e da consegnare come un regalo mai scartato agli abitanti della città che passeggiano per la strada, per le vie e i suoi odori, per le viuzze in salita, agli abitanti che si cercano, si perdono, si cercano e si smarriscono di nuovo come in ogni altra città del mondo, Londra o Milano, Roma o Parigi, per poi ritrovarsi insieme sotto il cielo, pesca, striato di azzurro, della sera, quasi notte: l’unico momento al mondo in cui l’attendere è dolce, in cui l’attendere è un frutto che pende dal ramo del cielo.
È quasi notte a Kutaisi. Le voci spente, la birra calda.
È quasi notte a Kutaisi. E io la aspetto.
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