«Di quanto sei?»
«Non sono incinta, ho partorito da poco».
Mia figlia ha due anni.
Dopo la gravidanza e diciannove mesi di allattamento il mio corpo è cambiato. Non è una questione di chili, nemmeno di centimetri. Le forme sono diverse. La pelle si distende e si contrae per accogliere, contenere, abbracciare. La mia carne è terra per saltare e spingere, è erba per contorcersi e rotolarsi, acqua per affondare, perdersi, tornare a vivere. Sono una mappa di imperfezioni da esplorare con la punta del dito, da graffiare e scavare per cercarne la sorgente. Io sono tua, io sono te.
«C’è questa dieta rivoluzionaria, fai colazione con un caffè e due biscotti secchi e mangi dopo diciotto ore ma non hai fame o sete, per niente, devi provare, funziona».
«Un’amica di mia cugina ha usato una crema snellente rassodante energizzante che fa perdere due taglie in un mese, devi provare, funziona».
«Con la meditazione puoi dimagrire quanto vuoi, basta focalizzare l’energia sulle parti del corpo che vorresti cambiare. Devi».
Ho indossato una panciera ma non si può dire. Il marketing suggerisce: intimo modellante, guaina avvolgente, slip contenitivo. Ma questo è: una panciera. Ho messo su un vestito un po’ aderente, ho tirato fuori le scarpe col tacco, sono andata a quella cena, ho sorriso, fatto brindisi, stretto mani. Ho ripetuto molte volte: «sto molto bene». Quando lo dico, il mio interlocutore inclina la testa e storce leggermente la bocca. «Mi fa piacere», mi tocca la spalla. Non ci crede o gli faccio pena o entrambe le cose. Del resto mi si vede poco in giro, non sbandiero i miei successi, non manifesto grossi disagi, sfoggio quasi esclusivamente economiche tute da ginnastica oversize. Non faccio reel su Instagram. Devo stare malissimo.
La palla finisce sotto al letto. Mi stendo sul pavimento e allungo il braccio, non ci arrivo. «Amore aspetta, mamma adesso prende la palla». Mi spingo più avanti, ancora niente. Lei piange.
(Sei una lardosa, non riesci nemmeno a prendere la palla di tua figlia sotto al letto).
Ci sono quasi, la sfioro con la punta delle dita. Mi fa male la schiena.
(Non è tanto la pancia, quella l’ha sempre avuta. Ma il culo? Hai visto il culo? Sarà raddoppiato).
La guancia si ghiaccia sulle mattonelle. Respiro la polvere, dovrei pulire meglio, tossisco.
(Le basterebbe iscriversi in palestra).
Non ci arrivo, dovrei prendere il bastone della scopa.
È in quel momento che il buco si apre. Non è troppo grande, quel tanto che basta per scivolarci dentro. La caduta è immediata, non provo nemmeno ad aggrapparmi a qualcosa. E poi a cosa? Non c’è niente qui, una radice, una sporgenza, una maniglia. Provo a dare un significato alle ombre ma ho dimenticato come si guarda e come si pensa e come si parla. Ti vedo mentre segni con delle x quelle cose che dovrei migliorare di me. Ti ascolto mentre mi elenchi chi potrei essere, se solo volessi. Gli occhi mi fissano, sono tanti, sono enormi, sono gialli e marroni e verdi e rossi, si aprono e si chiudono, sono liquidi, mi inondano mentre precipito, mi toccano la spalla per spingermi ancora più giù. Cosa ci rende fragili o fortissimi o insensibili? Mi ricordo ancora che un po’ di me è un po’ di te.
Sento la gomma sotto i polpastrelli, un ultimo impulso dalla spalla al polso, afferro la palla.
La pancia è un rifugio dove nascondere la faccia, il seno è un nido per cercare conforto, le cosce una poltrona per accucciarsi con un libro in mano. C’è un tempo che non esiste se non tra queste pareti sporche di matita verde e marmellata, con i quadri storti e i buchi dei chiodi scavati nell’intonaco. È un tempo morbido e caldo e setoso che profuma di niente, che appartiene a me e a te. È un tempo che si consuma mentre dormiamo e ci teniamo per mano, o ci tocchiamo una gamba, o un braccio. Fino a quando è mattina e la luce ci sveglia e non sappiamo se stiamo ancora dormendo.
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