Se solo non abitassi qui. Da qualsiasi altra parte, ma non qui. Guardo fuori dalla finestra e vedo il catino grigio dello stadio, i cancelli, le scalinate-serpenti, i fari. Vedo tutto, tranne il campo e la curva. I giorni peggiori sono le domeniche: vedo e sento. Conto i boati e ho imparato a riconoscere i nostri dai loro. Se mi concentro, mi sembra di distinguere le voci dello Stecco o, a volte, quella di Mimmo. Loro mi dicono che è impossibile, che sto uscendo di testa, ma loro non sono qui con me. Quegli stronzi sono lì, con le loro sciarpe e gli striscioni, e hanno fatto esattamente quello che ho fatto io. Loro hanno cominciato a menare, io li aiutavo. E ora loro sono fuori e io chiuso in gabbia.
Prima della partita passano tutti sotto al mio terrazzo e cantano per salutarmi. A volte mi faccio vedere e canto con loro, ma saltellare da solo al quarto piano mi fa sentire ridicolo. Che cazzo c’è da saltare? Mi fanno ridere quei disperati che si abbracciano per farsi forza; poi penso: sono come loro. E non rido più.
Ancora 12 giornate e sono libero. E dopo? Cosa cazzo faccio? Ricomincio come prima? Non so, mi sembra di assomigliare sempre di più a quei tardoni che prendevo in giro vent’anni fa. Ma allora cosa? Lo stadio è la vita, non c’è altro. Le donne, le risate, le incazzature, tutto è successo dentro lo stadio. In bagno ho un’altra finestra che dà sul lato opposto. Quando mi fumo una sigaretta lì, guardo tutti quei tetti rossi, quelle antenne a brillare, e non so una sega di quella gente, di quelle strade lassù, in collina, delle torri di vetro del centro. Questa città non la conosco.
Sul balcone di fronte, una vecchia sbatte un tappeto immenso ogni mattina. Ho sempre paura che le cada da quanta fatica fa a maneggiarlo. Mi si stringe il cuore: io non ho neanche il tappeto.
Il Fresco si è sposato. Il Fresco! Che l’ho visto ragazzino mentre cercava di saltare la rete della Maratona. Bene per lui. Ora sparisce per un paio d’anni, forse tre, e poi di sicuro torna, lo fanno tutti. Solo io sto sempre qua, li vedo passare, incazzarsi, fare a botte e poi ricominciare da capo. Ho un sacco di tempo per ricordarmeli, di alcuni mi sa che sono il solo.
Ma non sono mica la quercia del bosco delle storie. Mica è colpa mia se il tempo passa così. Perché, per me non passa secondo voi? Vi sembra che stia ringiovanendo? E questi capelli? E la pancetta? Per pisciare mi ci vogliono dieci minuti. C’è solo lo stadio, le partite, il derby. Non si ferma mai, ancora una e un’altra e il prossimo campionato e quello dopo. Io ho questo, come i monaci, porca troia. Dalla mattina alla sera a pregare. Che vita è?
Sono sempre incazzato e non so perché. Forse una volta c’era un motivo, ma ora chi se lo ricorda più. E incazzato con chi, poi? Con i ragazzi? E per cosa? Si butterebbero sotto un treno se glielo chiedessi. Forse per questo? Ma perché devono ascoltarmi così. Chi gliel’ha chiesto?
Solo in curva sto bene: lì, in mezzo al casino, non sei più tu, sei tutti, ti sembra di poter fare qualsiasi cosa, invincibile, ti capisci con uno sguardo, siete telepatici, sei vivo, vivo. vivo. A volte mi viene duro senza motivo o mi vengono le lacrime. Se hai una mezza storia con qualcuna e vuoi portartela a letto, portala in curva: ti si buttano addosso come mosche.
Il problema sono tutti gli altri giorni. Cosa fanno gli altri dalla mattina alla sera? Per quanto ci si sforzi di riempirlo, rimane sempre tempo. È strano: scappa o avanza con la stessa angoscia. Se ci penso mi sembra la vera fregatura, più di avere lo stadio qui davanti e non poterci andare, più dell’essere il vecchio del gruppo, più del non avere nessuna qui con me.
Ora conto le giornate di campionato che mi mancano per finire questi arresti domiciliari. Poi conterò le settimane che mancano al nuovo campionato e poi quelle che mancano alla fine. E in ogni conteggio, in ogni attesa, si infilerà il ricordo di questi giorni e di una vocina che dice: “Ma era questo quello che hai aspettato tanto? Era tutto qua?” Stronza, stronza figlia di puttana: se la trovo, la riempio di botte.
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