di Rebecca Moore
Lo volevo lasciare già da un po’, per via di quei suoi modi persecutori. Non credeva mai a niente di quello che gli dicevo, faceva il suo gioco.
L’avevo incontrato in palestra, mi aveva offerto il suo aiuto, educato, piacente, premuroso. Nei lineamenti si intravedeva una strana durezza, che riconosco solo ora con la chiaroveggenza del domani. Era bello, “un principe azzurro” lo avrebbe definito mia madre, portava camicie bianche inamidate e stirate da lui.
Un weekend andammo a Venezia. La città era oppressa dal bel tempo. Dico oppressa perché la felicità di quel cielo matita, incontaminato, metteva ancora più in risalto le mie ombre, come in un gioco di chiaroscuri. Stavamo in un ostello a Campo dei Gesuiti, a due passi dall’acqua. Un ostello di quelli moderni, lussuosi, futuristici. La mattina facemmo una colazione continentale nella corte; tutto era perfetto, impeccabile, la qualità del cibo, il servizio, il gusto nell’arredamento e per l’arte appesa ai muri. Anche le lenzuola da cui ci eravamo appena alzati non si erano sgualcite, erano rimaste setose e senza increspature.
Il sole era ancora alto, fosforescente. Camminammo e camminammo. Il mio cuore sommerso dall’angoscia; le strade pulite. Camminammo, e io che ho un perfetto senso dell’orientamento, mi persi. Non riuscivo più a distinguere il sopra dal sotto, il dietro dal davanti, come un labirinto. Il Minotauro faceva strada. Doveva trasferirsi per lavoro in quella città e faceva finta di essersi acclimatato, di fare da cicerone. Intimava che lo seguissi, che andassi a vivere con lui, ne parlavamo ogni giorno, era l’unico argomento di conversazione.
Finimmo nel quartiere ebraico. Non era ancora l’imbrunire ma sembrava già scoccata l’ora. Porte chiuse, piazze prede del vento, alberi muti. C’è da dire che era inverno. Bighellonavo senza meta, aspettando, non dando voce al declino. Lui mi ripescava la mano, come un secchio dal fondo di un pozzo.
Camminammo e bevemmo. Non ho mai bevuto spritz più buoni, oltre a quello classico lo facevano anche con vino bianco, acqua di Selz e una spruzzata di prosecco. Nel fondo, morivano sempre una o due grassissime olive. Non ho mai mangiato olive più verdi e succulente, erano dei frutti esotici.
Non ricordo più che piega prese il tempo, gli spritz erano troppi e troppo buoni, ma non ero mai ubriaca fino in fondo. Vagavo sempre nella dispersione e nella leggerezza della bolla rosa, nel mondo delle cose translucide, come sott’acqua. Stavo sprofondando, con un bicchiere in mano e una maschera carnevalesca, nel nero mare, lenta e amorfa. Come la città.
Non credevo che sarei sopravvissuta al secondo giorno. Mi svegliai all’alba, non per qualche rumore, ma per il silenzio. Un silenzio d’acquario, che vagava nei corridoi dell’ostello, si era infilato sotto agli usci delle camere, tutte vuote tranne che per la nostra. Se prendo le mie cose mi inseguirà. Così uscii a piedi scalzi; solo una città in cui mi ero perduta poteva anche salvarmi.
Rebecca Moore (1990) è italo-americana e vive a Firenze. Ha una laurea in Lettere Moderne e alla passione letteraria e filosofica aggiunge quella per il disegno. Ha scritto un romanzo, Il Mare e la Terra.
“Se prendo le mie cose mi inseguirà. Così uscii a piedi scalzi; solo una città in cui mi ero perduta poteva anche salvarmi”. Una scrittura bella, elegante e profonda. E un finale perfetto.
Un’immagine autentica della città, bellissimo racconto!
Un racconto breve. Talmente breve che finisce troppo presto.
Il lessico è semplice, ricercato, efficace.
La storia è come una bolla di sapone: affascinante, fragile e che sparisce in un istante.
Mi piacerebbe leggere di più, qualcosa di più articolato.
La mia curiosità è stata risvegliata da questa piccola perla.
Un racconto breve. Talmente breve che finisce troppo presto.
Il lessico è semplice, ricercato, efficace.
La storia è come una bolla di sapone: affascinante, fragile e che sparisce in un istante.
Mi piacerebbe leggere di più, qualcosa di più articolato.
La mia curiosità è stata risvegliata da questa piccola perla.
Bello, bello, bello! In poche righe si è travolti dalla sensazione di inadeguatezza con noi stessi insieme a certe persone, quando tutto appare strano e, appunto, pallido.
Mi piace quello che Rebecca ha creato, Venezia sembra la città perfetta per nascondersi dietro una maschera o finalmente togliersela (evviva Pirandello)!
Bellissimo racconto, breve ma intenso e commovente, reso “vivo” da un elegante stile di scrittura.
Come se, da una grande scatola colma di parole, l’autrice ne pesasse di volta in volta una e, con cura e rispetto, scegliesse proprio quella che, in successione alle altre, ti fa sentire esattamente lì, in quella città e in quel momento. L’umidità fredda sui capelli, il grigio negli occhi di chi hai davanti e le nuvolette di fumo che ti escono con la voce.
E poi un pensiero: ne vorresti ancora.
Intenso e bellissimo, non c’è altro modo di descriverlo. In poche righe ti porta a fare riflessioni profonde e ti fa riemergere con una luce di speranza.
Evoca con grande sensibilità la sottile linea fra realtà e illusione, e quella lotta così umana del costante oscillare fra disappunto e speranza.
Racconto bello ,lirico, profondo mi è piaciuto molto
Spledido pezzo. Molto bella e potente l’immagine del silenzio che vaga per i corridoi e si infila sotto gli usci delle camere. Un racconto che nella sua brevità riesce ad accumulare velocemente un forte senso di inquietudine, per poi esplodere in un elegante finale liberatorio.
Sento tutti i chiaroscuri e mi perdo a Venezia, scalza. Adoro leggerti..!
Basta il primo paragrafo a renderci irrimediabilmente preda dell’autrice. Rebecca Moore certo sa come catturarci. Accattivante, una scrittura asciutta anche se ricercata, capace di farci perdere il senso dell’orientamento. “Vagavo […] nel mondo delle cose traslucide, come sott’acqua.” Anche volendo sarebbe difficile trovare frase migliore per descrivere la lettura di questo racconto. Ricordi fugaci e tuttavia nitidi, dolorosi, si confondono in un caleidoscopio di emozioni. Esercizio di stile? Ben venga. Intimava che la seguissi, che continuassi la lettura.
Una pennellata ben definita che descrive uno stato d’animo. Il finale è molto suggestivo. Ben si respira l’atmosfera veneziana. Mi è piaciuto tanto.
Davvero bello e profondo! Racconto di una semplicità tagliente che mi ha travolta e catapultata accanto alla protagonista. Aspetto il prossimo! 🙂
Ho “vagato nella dispersione” assieme alla protagonista, in una città in cui si può “vagare” molto bene, dove avere una meta è riduttivo. Ho ritrovato il piacere nell’alleggerirmi di questo fardello. grazie