di Antonio Potenza
Mina ha deciso di farlo, vuole essere coraggiosa. Non si tratta di una scelta logica, ma istintiva. Necessità, dovere e dogma: attraverserà lo spazio su quel filo sottilissimo per arrivare dall’altra parte.
Potrebbe farlo da giù, se non fosse che lì ci brulichino i vermi. E gli inetti. Lei cavalca l’aria, i flutti di vento, invece. Percepisce, attraverso gli atomi che compongono la sua biologia, che quel filo è l’unico sentiero da intraprendere. Gli occhi fissano quella lunghezza con insistenza, perché quella è la sola onda da cavalcare. Alle orecchie le arrivano trambusti lontani, voci minute, ma oggi riesce ad ignorarli.
Respira, si passa la lingua sulle labbra, quindi fa il primo passo. Sembra difficile, lo poggia e lo alza, finché decisa non lascia andare il peso in modo da spostare il successivo su un punto più in là del filo.
Il secondo è più semplice. È stato sempre così d’altronde, sembra stia pensando mentre contrae l’addome per evitare che l’equilibrio vacilli. Tutto ciò che le è sembrato arduo in passato ha finito per svelarsi più semplice rispetto alle sue angosce. Così sarà oggi, si ripete, mentre mette in fila il quarto passo sul sottile filo di bava.
Al quinto, da fuori arriva il suono delle campane: è mezzogiorno, quella melodia è la stessa che sentiva da piccola. Strillava al paese che era il momento di preparare il cibo, di sedersi a tavola.
Al sesto, le ritorna in mente sua madre. Si sente improvvisamente stupida a ricordare come nell’infanzia temesse che potesse abbandonarla, dimenticarla in qualche luogo, per non tornare mai più. E invece, guarda com’è semplice ora: mette il settimo passo, mamma torna sempre. Ora lo sa.
Ma all’ottavo passetto sullo spago di bava, dalla finestra, giunge un fischio, poi un boato. Il fragore sfuma, si assottiglia, poi si spezza: come le ossa di suo padre sull’asfalto. L’equilibrio segue l’attenzione di Mina, che adesso si sfilaccia, si infrange quando il peso sonoro di quella reminiscenza si infrange nel padiglione, scivolando attraverso l’umido condotto uditivo, serpeggiando oltre il timpano, depositandosi infine nella coclea.
Il nono passo poggia nell’aria, il peso asseconda l’assertività della gravità. Mina si sbilancia, il suo corpo adesso è un sasso. Tuttavia, il filo le concede un’ultima opportunità. Mina si aggrappa, respira a fatica, sente il terreno che la chiama e il fardello dell’aria che la spinge. Il suo corpo si allunga, le sue componenti si assottigliano, mentre punta lo sguardo verso l’alto. Non dovrebbe guardare giù, sarebbe il primo errore. Ma nuovamente è l’istinto a suggerirle di farlo. La presa si arrende, Mina con essa.
Vortica per un po’, il corpo cambia posizione nell’aria, poi le zampe assorbono l’impatto. Il suo scheletro, duttile ed elastico, si stringe e si ricompone, quindi una volta toccata terra si volta a guardarmi arrabbiata, e miagola.
È delusa Mina, ci prova da quando è con me, adesso è troppo pesante per superare in equilibrio lo spago tirato tra armadio e vasca da bagno. Ma non se ne rende conto. Va bene così Mina, è solo un gioco, domani ci riproviamo.
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