– Vi odio, vi odio entrambi!
Le tirai uno schiaffo.
– Non potevate morire come tutti?
Scappò via prima che riuscissi a fermarla. Correva a perdifiato fra le rocce e le erbe spermatophyte. Non riuscivo a capire come potesse essere così veloce, quando io e sua madre riuscivamo a malapena a saltellare impacciati. A vederla, quei passi lunghi, da gazzella, che la gravità appena più bassa rendeva eleganti, sembrava destinata a questo mondo.
Lara piangeva seduta in cucina, tenendosi la testa fra le mani, mormorando continuamente “no, no, no” oppure “cosa abbiamo fatto”. Mi avvicinai, le accarezzai i capelli e scaldai l’acqua per il tè. Eravamo riusciti a trovare una pianta simile, eccetto il colore: lapislazzulo. Sarebbe bastato non sapere di essere gli ultimi e sarebbe stata una vita piacevole. Non essere gli unici tre, in tutto l’universo.
– Stronzi, stronzi!
La sentivo urlare anche se doveva aver raggiunto la cascata, a sei, sette chilometri da qui. I suoni viaggiavano molto di più, non sapevamo perché. Eravamo sempre così indaffarati: trovare cibo che non ci ammazzasse, piantare quel poco che sapevamo sarebbe cresciuto, purificare l’acqua, crescere una bambina. Non c’era tempo per le curiosità scientifiche. Quand’era piccola, non c’era tempo per nulla. Lara aveva gli occhi azzurri ed erano bellissimi mentre beveva, sembravano riflettersi nella tazza. Gli stessi della nostra bambina, ormai quindicenne. Anche ora, pieni di lacrime, mi ricordavano cosa mi aveva fatto innamorare di lei.
– Non avremmo dovuto. Ha ragione lei. –
E, dopo una pausa: – Non avresti dovuto.
Lara soffriva di depressione. Se fossimo stati sulla Terra, se ci fosse ancora una Terra, le avrei prescritto della Sertralina e in un paio di mesi ne sarebbe uscita. Ma qui ci siamo solo noi, nessun terapeuta, niente Sertralina. Niente di niente.
– Non lo pensi Lara, sei solo triste.
Annuì.
– Ma come farà? Come faremo?
Le grida fuori si erano calmate. Si sentiva solo il ronzio del tramonto.
– Sopravviverà, come noi. Anche solo qualche anno più di te e di me.
Mi sorrise e le accarezzai le fossette sulle guance che cedevano, appesantite. Mi chiesi se là fuori la mia bambina si stesse accarezzando la pancia, ormai tesa, rotonda: non doveva mancare molto. Nove mesi erano volati.
– Almeno, non sarà sola – mormorai tra me e me.
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