Da alcuni giorni ho un’idea fissa.
Patate. Patate normalissime che io taglio a pezzi per poi lessarle, prima di metterle in forno.
Ci sono queste patate che non mi si schiodano dalla testa.
In questi mesi di quarantena sono diventato in cucina una specie di fenomeno.
È possibile che vi dedichi troppo tempo. Diana mi ha detto di non attribuire così tanto significato al cucinare. Diana ha ragione, per questo provo a occuparmi anche di altre cose. Per esempio alla scrittura.
Sto lavorando (per lo più senza venirne a capo) a un racconto per In fuga dalla Bocciofila dedicato alla serie Netflix “The Last Dance”. Per scrivere il racconto ho contattato molti miei ex compagni di squadra che non sentivo da anni. Ho inviato loro delle domande per cercare di ricostruire gli anni tra il 1992 e il 2004, ovvero il lasso di tempo in cui ho giocato a basket e di cui ricordo pochissimo. Sto mettendo da parte molto materiale, anche se non so esattamente cosa ne verrà fuori.
La voce che sto scrivendo un racconto sul basket si è diffusa e ogni giorno qualcuno degli ex compagni torna a farsi vivo, rievocando vecchie storie che avevo quasi del tutto dimenticato. Archivio il materiale stancamente, nell’ottica che un giorno lo userò per scriverci un racconto.
Sospetto che non lo farò mai.
Poi, quasi con un movimento involontario, torno in cucina a preparare.
Ieri sera, per esempio, ho fatto le melanzane ripiene.
In questo periodo mi sono guardato dentro e ho capito che ogni persona corrisponde a un tipo di cottura specifica. Io sono certamente tipo da cottura al forno. Mi piace questa attesa, lenta, implacabile, bimillenaria. Amo aspettare che i cibi siano cotti. Mi piace questa specie di rilassatezza che fa seguito all’infornare. Quasi un calo di tensione. Quasi una sigaretta dopo l’amplesso.
Mentre aspetto che il cibo sia pronto metto a posto le pentole che ho sporcato, oppure mi siedo sul divano e bevo un bicchiere di bianco, davanti a Diana che lavora.
Mi sento finalmente in pace.
Se non fosse per l’immagine della patata, che da alcuni giorni mi tormenta.
Ogni volta che ritorna, la scaccio via.
«Diana, tu riesci a vedere il volto di Gesù Cristo su questa melanzana ripiena?» le chiedo, così che sappia che non ho perso la testa. Perché se scherzo sul fatto che sto perdendo la testa vuol dire che non l’ho persa davvero.
«Ah-ha».
Gli ex compagni di squadra mi scrivono per sapere che fine ha fatto il racconto sul basket. Il racconto in cui parlo di loro. Non mi danno tregua. Io nicchio. Prendo tempo. Vagheggio.
Poi, come ogni giorno, inizio a cucinare. Oggi preparo per Diana il pollo alla griglia e le patate arrosto.
Diana è decisamente tipo da cottura alla griglia. Cibi croccanti, ricette veloci. Io non mangio carne, quindi riscalderò la melanzana avanzata di ieri, quella con i volto di Cristo sulla superficie.
«Che prepari oggi?» mi ha chiesto Diana.
«Pollo e patate».
«Evviva. Il mio pranzo preferito».
Perché sono diventato un fenomeno a fare le patate al forno.
«Ti vengono meglio che a mia madre» ha detto Diana.
Il trucco è sbollentare le patate qualche minuto prima di metterle in forno, cosicché poi saranno morbide dentro e croccanti fuori. Dopo qualche minuto nella pentola, scolarle, salarle senza timore, oliare bene e poi dimenticarsene, mentre loro sono in forno.
Ma c’è l’immagine della patata che mi inquieta.
Forse oggi sarà il giorno.
Immagino che la patata si ricomponga.
Che la patata torni ad assumere la forma che aveva prima che la tagliassi.
Non intendo che i singoli pezzi del tubero tornino a essere uno, questo sarebbe follia, ma che al momento di versare nello scolapasta ogni parte della patata torni nella posizione che aveva prima di dividerla. Potrebbe succedere, mi dico. È un caso assai raro, ma possibile. Che tutte le singole parti della patata, sebbene lessate e tagliate a pezzi, possano andare a disporsi nella loro forma originale.
«Che fai Simone?» mi ha domandato Diana, affacciandosi nel minuscolo cucinotto.
«Che faccio? Niente».
«Stavi fissando le patate. Già da un minuto ti osservo. Va tutto bene?».
«Certo, Diana. Benissimo. Pensavo a un racconto sul basket che dovrei scrivere».
«Ah. Ok. Meno male. E a che ore si mangia? Perché poi verso le due ho una telefonata di lavoro».
«Per le una in punto le patate saranno cotte».

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