La città illividiva al vento. Le case e i giardini erano scompaginati da un delirio incontrollabile. Sostavano come animali pasciuti e acquatici le automobili per le vie, ferme oltre l’orario consentito nei parcheggi blu, davanti a garage serrati e negozi senza più nulla da vendere. Dall’alto, dietro finestre vibranti, occhi lucidi e sgomenti osservavano inermi le chiome degli alberi rivoltarsi come ombrelli controvento, le foglie strappate mescolarsi a rivoli schiumosi e grigi, succhiati e risputati in un grugnito cavernoso di canali sotterranei. Ora fogne e fango occupavano la piazza, la via dello shopping, le scalinate della chiesa, e a festeggiarne la venuta i petali cadevano tramortiti, calamitati da balconi sprovvisti di tettoie abbastanza lunghe, o di proprietari rimasti incastrati dove è di stile vivere, nella zona della città che, come isolata dalla realtà, non intercede mai, se staccata da qualsiasi nozione che valga il suo interesse. Anche lì la tempesta avrebbe vinto ogni ritmo, reso mediocri le vicissitudini lavorative, mortali le unità metriche di Google Sheets, agendo, a conti fatti, allo stesso modo dell’innamoramento: le persone si sarebbero scoperte piene soltanto di uno strano senso di eccitazione e orrore.
Poche ore prima della tempesta, Laura beveva un cappuccino di soia in un bar qualsiasi con il legno teak alle pareti e il pavimento in resina grigio. Preparava il suo discorso sull’importanza della pre-segmentazione automatizzata degli utenti, offrendo un’analisi di stili di vita e contenuti di alta qualità in linea con la rivalutazione della cecità. Sul web, solo i sentimenti negativi erano buon argomento di campagne advertising. Perché i ciechi non potevano essere divertenti? Come combattere questa negatività? Laura pagò il conto al bar e si diresse verso l’azienda. Ripeteva mentalmente il discorso sull’importanza della partecipazione attiva degli utenti target e sulle aspettative per coinvolgere le comunità disabili di cui Peace, società per cui lavorava, si occupava da anni. Era riuscita a conquistare un contratto indeterminato, impegnandosi oltre l’orario stabilito per sei mesi. Dopo il primo periodo di prova il compenso non era variato granché, ma Laura poteva approfittare della formazione concessa da Giulia Pitrocchi, Marketing Manager conosciuta in tutta Italia e all’estero. Pitrocchi era ciò che Laura aspirava ad essere. Magra, vegana, capelli biondi a spazzola, zigomi appuntiti, completi in tono alla pelle bronzea e unghie laccate amaranto, in autunno, e albicocca pallido, in primavera. La voce rauca e lo sguardo austero facevano di lei una donna forte e decisa: nessun uomo osava farle battutine da quattro soldi, avances spregevoli o chiarimenti di sorta. Incontrandola, Laura provava sempre un senso di smarrimento e imprecisione che la motivavano a googlare compulsivamente corsi di formazione, vestiti, riviste, e-book, oggetti e servizi che le avrebbero consentito abitudini caratteristiche e permanenti comparabili con il tenore di vita di Giulia Pitrocchi. Pensava sempre a Giulia Pitrocchi. Sentiva, parlava, mangiava, rideva, camminava imitandola, e dall’estetista, non poteva immaginare di chiederlo, avrebbe voluto una toilettatura come quella di Giulia Pitrocchi.
Da settimane, Giulia Pitrocchi le faceva visita nei sogni. All’inizio appariva come Grande Sacerdotessa delle deadline, bonaria verso i fedeli e vendicativa coi ritardatari. Ma più la sognava, più la sua figura si ammorbidiva e Laura ne guadagnava in simpatia, affezione, stima, e in definitiva persino sentimento. Giulia Pitrocchi la cullava come una bambina, le diceva brava piccola mia brava, prodigandosi in bacetti amorevoli su guance e testa. La dondolava avanti e indietro, indietro e avanti, io e te siamo proprio due gocce d’acqua, siamo identiche, io e te, ridevano appagate di quella somiglianza. La notte precedente alla tempesta, davanti ad un grande banchetto rutilante di carni e pesci, Giulia Pitrocchi si era stesa nuda sopra le pietanze, e porgendole coltello e forchetta le aveva chiesto: perché non mi assaggi? Desideri e ordini a comando, con un taglio alla volta aveva affondato la sua carne voluttuosa fino a divorarla completamente, prima della sveglia mattutina.
Laura camminava veloce verso l’ufficio. La pioggia picchiettava l’asfalto. Ripeteva mentalmente le tasks che avrebbe dovuto discutere, rigirando la penna infilata in tasca, tra le dita sudate. Salì per le scale, arrivò al primo piano e aprendo la porta metallica si accorse sgomenta che la riunione era iniziata. In ritardo? Com’era possibile? Giulia Pitrocchi la guardò noncurante. Ripiegata sul tavolo, stava leggendo le analisi che Laura, da mesi, aveva dettagliatamente condotto. Si sedette avvampando di vergogna. Amministratore Delegato fece una smorfia, lisciò la cravatta, disse: andiamo avanti. Laura controllò Google Calendar. Era in orario. Perché non l’aveva avvisata? Non era importante, presto le avrebbe passato la parola. Da mesi si preoccupava di adempiere ai suoi obblighi, notte e giorno. Anelava la meritata ricompensa, immaginava lo sguardo colmo di gratitudine di Giulia Pitrocchi, il sorriso largo di Amministratore Delegato. Le avrebbero detto: complimenti Laura, davvero un buon lavoro. Dovevano esser fieri di lei. Invece i minuti scorrevano e Amministratore Delegato annuiva compiaciuto alle frasi che uscivano come nuvole di panna dalla bocca perfetta di Giulia Pitrocchi. Il core business di Peace sta nell’alleanza intersezionale delle disabilità, perché non si fermava? Laura prese a sudare copiosamente, un rivolo freddo scese lungo la spina dorsale, le persone cieche sono vive come le altre, e non vedere non vuol dire necessariamente essere triste o arrabbiato, i muscoli fremevano, la penna in tasca affondava nel palmo umido, non siamo forse noi a pensarli così, i ciechi, i disabili, i paraplegici e i corpi non a norma? Peace è qui per cambiare questo paradigma tossico, il collo s’irrigidiva, la salivazione aumentava; deglutì più volte, Laura, mentre le narici si dilatavano e le pupille si schiudevano come una dilagante macchia di petrolio, scura, profonda, ampia, Peace è qui per fare del mondo un posto migliore, un posto dove nessuno è meno di uno, Laura si alzò di scatto dalla sedia, perché un mondo migliore è un mondo dove tutti sappiamo riconoscerci, avanzò rapida verso Giulia Pitrocchi per accettarci, uniti, nelle nostre difficoltà, e con un gesto definitivo le conficcò la penna dritto in un occhio. Inorridita, Giulia Pitrocchi alzò inerme i palmi al cielo mentre il sangue colava tra le dita e sui grafici a torta, sui dati a colonna, tra i numeri a norma, e annaspò per trovare le parole, per carpire col senso la realtà atterrita, ahhhhhhhhhh!, le scappò solo un grido, deforme, guernica, e Laura stava là, attonita, il respiro mozzato mentre Amministratore Delegato toglieva la giacca per avvolgere il viso straziato, Questa è pazza! Questa è pazzaaa! Questa è pazzaaaaa!, ripeteva guardandola fisso, e dall’ascensore un liquido denso serpeggiò lento sulla moquette prima di abbattere le porte degli uffici, le lavagne dai workflow disegnati, le sedie in eco pelle, le gambe di gonne plissettate, pantaloni tweed, e chi precipitava nei corridoi urlando, chi si s’incollava al muro, montavano le voci sospese, i piedi trottanti in un rimbombo confuso, tamburo di guerra, e sotto il trepestio della pioggia il vento fendeva le finestre socchiuse, inforcava fogli colorati, previsioni medie-annue, plichi di proposte da approvare: nessuno ci avrebbe più pensato.
La riunione, suppose Laura, poteva dirsi conclusa.
Fuori la tempesta imperversava. La città era salva.
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