Qualche sera fa, il presentatore di una trasmissione televisiva ha chiesto di immaginare il virus come un esercito di cecchini appostati sui tetti dei palazzi, in attesa di noi, incauti e disgraziati cittadini che escono di casa, facili bersagli da impallinare e mandare in ospedale, dove medici e infermieri, come immersi in una fangosa trincea, lottano per arginare l’avanzata nemica.
La metafora della guerra come racconto della pandemia è stata uno dei tanti sollazzi polemici che hanno accompagnato le ultime settimane, insieme a quello sui dati, ora giusti ora sbagliati; sull’utilità e la disponibilità delle mascherine; sui runner e sui droni, e sui droni che vanno a caccia di runner in un remake distopico di Apocalypse Now.
Ogni giorno, dal ribollire di un oceano informativo, è emerso il rigurgito di un tema attorno al quale siamo stati invitati a unirci, per generare dibattito, contenuti e opinioni. Anche prima era così, certo, ma oggi si distinguono due nuovi aspetti.
Primo: qualsiasi tema affiori – politico, culturale, scientifico, teologico, filosofico, economico, sportivo – il nocciolo della questione è il virus, da cui difenderci o con cui convivere. Anche le pubblicità sono a tema virus. E tutto ciò che diciamo, raccontiamo, scriviamo (come ora) ha come unico oggetto il virus.
Secondo: costretti 24/7 in casa, la ripetitività delle giornate rafforza l’idea di vivere un tempo sospeso tra la normalità di ieri e le possibilità di un domani che non sappiamo quando e come sarà. L’oggi è dunque un tempo ridondante, privo di sviluppo e linearità. Un tempo che provoca vertigine. Come in un videogioco, ogni mattina ci svegliamo e ripartiamo dallo stesso checkpoint, quello che il giorno prima non abbiamo potuto superare.
Immersi in questa stasi monotematica, la polemica diventa l’unica coordinata temporale che ci fa percepire il lento avanzare delle vicende e della lotta che là fuori evolve, e ci distrae da un altro nemico che emerge dalle pieghe temporali in cui siamo incastrati: la noia.
Fortunatamente per noi, la società, per combattere questa malattia del tempo, ha un antidoto che produce a getto continuo suggerimenti per film, documentari e serie TV da vedere; libri e fumetti e riviste da leggere; videogame da giocare; podcast o dirette social di musicisti e DJ da ascoltare; tour virtuali nelle gallerie di musei da fare; corsi di ogni tipo da seguire; ricette per pane e pasta e pizza da realizzare.
Il materiale per tenersi occupati non manca tanto quanto chi ci invita a rendercene conto.
Mi chiedo poi se questa cacofonia di proposte sia utile per combatterla, la noia – ammesso che sia obbligatorio farlo –, o se sia solo un diversivo per evitare di farci i conti. È una domanda sincera, ma credo che, a conti fatti, la risposta possa non fare differenza.
Nessuno è annoiato, tutto è noioso, ha sintetizzato uno scrittore a cui piaceva raccontare la schizofrenia dei nostri tempi, dove la noia è un retaggio obsoleto, il cimelio impolverato di una società analogica che, di tanto in tanto, infesta l’abbondante disponibilità di emozioni, ragionamenti, sentimenti e informazione dell’oggi.
Un nemico invisibile, la noia, in grado di penetrare nelle nostre case attraverso gli stipiti di porte e finestre sprangate, risalire le tubature dei sanitari o le condutture del gas, diffondersi attraverso l’aria emanata dai condizionatori e impossessarsi di noi come un demone androgino da cui ci si libera solo con un esorcismo.
Ripenso allora alla trasmissione di qualche sera fa, e immagino il presentatore dirci che avrebbe eseguito, proprio lì, in diretta, nello studio televisivo deserto ma presidiato dallo sguardo degli ospiti in collegamento, l’esorcismo, così da permettere a noi spettatori contagiati di goderci, senza pensieri, le meraviglie del suo programma ed evitare, l’indomani, una volta risvegliati in quello stesso checkpoint che non abbiamo potuto superare, di essere tentati di abbandonare la partita, così da non fare-dire-sentire-vedere più nulla, e non sentirci in colpa per questo.
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