di Francesca Cassanelli
(essi vivono)
Le donne si preparano a ritirare gli ultimi tavoli. Solamente quattro o cinque sedie vengono lasciate all’aperto, poiché anche in inverno è bello starsene seduti lì, a godere delle onde e del profumo del mare. Le ghirlande che per mesi avevano ornato la veranda appaiono sbiadite, rovinate dalla salsedine e dal sole. Della fila di lampadine appese al parapetto, solo tre funzionano ancora. Le assi di legno del pavimento, ormai lasciate al loro destino, cominciano a riempirsi di foglie portate dal vento o dalle suole delle scarpe. Anna è seduta sull’unico gradino che separa il portico dalla spiaggia. Si è tolta gli scarponcini e le calze e ha immerso i piedi nella sabbia fredda. Abbottona la cerata fino al mento, poi appoggia il laptop sulle ginocchia e comincia a sistemare l’ultima bozza. Il testo si intitola “Diventare una sedia come Anne Sexton”. Rebecca, pur vivendo sotto il suo stesso tetto, le ha inviato appunti e correzioni via e-mail. In una nota finale ha scritto:
Quando TU diventi una sedia, io me ne accorgo SEMPRE : )
R.
Da quando Rebecca ha assunto il ruolo di caporedattrice, la loro rivista è diventata di gran lunga più professionale. «Non siamo una comune di sbandate» aveva detto il giorno del suo insediamento.
Sullo schermo, in basso a destra, compare l’icona che segnala l’arrivo di un nuovo messaggio. Anna torna a controllare la posta in entrata. Chiude gli occhi e inspira profondamente. Quando li riapre le sue pupille, leggermente dilatate, fissano un punto in mezzo al mare.
In fisica il concetto di simultaneità è sbagliato, fuorviante. Eppure, in un pianeta piccolo come il loro, qualcuno poteva spedire una mail in un istante che sembrava proprio ora, sia per il mittente che per il destinatario.
Nel vano della porta che dà sulla veranda compare una donna sulla cinquantina, avvolta in un poncho colorato tutto sbrindellato.
«Dovresti dare una mano con i dolci. Domani, per colazione, arriva la comitiva di tedeschi».
«Sarebbero dovuti arrivare per cena» risponde Anna, sovrappensiero.
La donna alza le spalle e torna dentro. Anna temporeggia per qualche istante, poi con l’indice tocca due volte il touchpad.
Cara Anna,
Sono mesi ormai che non sento la tua voce. Non so dove sei, cosa fai, con chi parli. Ti sei nascosta così bene che non so in quale direzione cercarti. Ho parlato al telefono con tua madre e mi è sembrata tranquilla, significa che stai bene, spero.
La città dove vivo ora è, in questa stagione, grigia e piovosa, come Glasgow, come Amburgo, come tutte quelle città dove l’acqua scende dall’alto e mescolandosi a quella in basso bagna e raffredda tutto.
Sono qui da nove mesi e ho imparato a dire tre cose, e due di queste riguardano le ordinazioni al ristorante.
Le persone che ho incontrato finora sono gentili ma in qualche misura indifferenti alla mia presenza.
Non ho ancora degli amici, ma l’uomo che abita sotto di me mi ha invitato la settimana scorsa per uno spuntino pomeridiano. Si chiama Mr. Sunwoo.
Sento sulla mia pelle quello che descrivevi tu, molto tempo fa. I giorni passano lenti, eppure i mesi scorrono in fretta.
Io ci galleggio in mezzo. Aspetto.
Ti prego, scrivimi.
Michael D.
Anna legge il testo un paio di volte. Prima di alzarsi chiude il pc e lo ripone nella borsa di tela.
In cucina viene accolta da un profumo di vaniglia. Attorno al tavolo, due donne spremono la farcia nei cannoli. Rebecca è seduta sul bancone. Stretta tra le cosce tiene una ciotola di terraglia sporca. Con la lingua e un polpastrello pulisce quel che rimane della crema al cioccolato.
«Vostra Altezza, siete venuta a darci una mano?»
Anna le lancia un’occhiata di sbieco.
«Reb, finiscila con quella crema e aiutami a decorare la crostata» dice una delle donne.
Rebecca salta giù dal ripiano e assiste la donna durante la delicata operazione.
«Che cosa verranno a fare qui, quei tedeschi, con tutta quest’acqua» borbotta.
Anna si siede su uno sgabello e dopo aver riempito una sac-à poche di farcitura afferra delicatamente una cialda con le dita. Una porta si apre ed entrano due vecchie con delle cassette cariche di frutta.
«Inizia a piovere forte» dice una di loro.
«Cazzo!» Rebecca lascia andare sulla tovaglia la striscia di pasta che tiene tra le mani e corre in direzione della veranda. Anna si alza di scatto e la segue. Le donne, in cucina, ridacchiano.
A mano a mano che le gocce diventano più pesanti la sabbia scurisce. Rebecca e Anna fanno il giro della casa e raggiungono i fili con i panni stesi.
«Mi ha scritto Michael». Anna deve quasi gridare, per sovrastare il rumore del vento, della pioggia e delle onde impetuose.
Rebecca storce la bocca ma non dice nulla.
«Dovrei rispondergli».
«Perché?»
«Perché sono sparita».
«E allora?»
«Mi sono nascosta».
Un tuono le fa sobbalzare. Si girano entrambe a guardare. In lontananza, una tromba marina si sposta rapida verso destra.
«Mi sembrava che fossi convinta di voler tagliare i ponti».
Anna annuisce.
«Non sai più se vuoi vivere con le altre?»
Rebecca strappa con forza l’ultimo asciugamano dal filo. Una molletta di plastica si spezza in due e le sue parti cadono a terra, distanti tra loro.
«Fai come ti pare» aggiunge, prima di girarsi e correre verso la casa.
Anna rimane lì ancora un po’, finché il fagotto di lenzuola che tiene tra le braccia diventa zuppo e pesante.
Quella sera, dopo cena, non partecipa alla solita riunione. Dice di avere un’emicrania e si ritira in camera presto. Si raggomitola ai piedi del letto, apre il pc e rilegge il breve messaggio di Michael. Fuori, la pioggia batte con violenza contro i vetri della finestra. I tedeschi non riusciranno ad arrivare, pensa. I viaggi in traghetto verranno certamente interrotti per una giornata intera, o addirittura per tutta la settimana. Dovranno accontentarsi di un hotel sulla costa, oppure ripiegare nell’entroterra, alla ricerca di un agriturismo tra le colline.
Anche il viaggio suo e di Rebecca, molti mesi prima, era stato faticoso. Senza auto né soldi per il treno, avevano attraversato la regione in autostop, racimolando passaggi alle stazioni di servizio. Avevano dormito al porto, sulle panchine della nave che la mattina seguente le avrebbe portate sull’isolotto. Il viaggio in mare era durato poco. Rebecca aveva letto il giornale sdraiata a terra, con la testa sullo zaino. Anna invece, appoggiata al parapetto, aveva visto qualche delfino e aveva pensato, con spensieratezza, al proprio futuro. Più si allontanavano dal continente, più la vita diventava leggera, vaporosa, inconsistente. Sull’isola avevano lasciato che le loro gambe appesantite dal peso dei bagagli sprofondassero nella sabbia fino a sentire lo strato umido invisibile agli occhi. Le donne le avevano accolte la sera stessa e loro si erano sentite subito a casa.
La luce di un lampo illumina la camera da letto. Dal piano di sotto proviene una melodia traballante suonata al pianoforte, poi delle risate e qualche fischio. Una donna comincia a cantare una canzone e subito le altre la imitano. La voce di Rebecca, acuta e un po’ stridula, emerge prepotente da quel baccano allegro. Una goccia cade sul dorso della mano di Anna. Lei guarda verso l’alto, osserva le travi del soffitto e si domanda quanto grave sia l’infiltrazione. Poi un’altra goccia, questa volta sullo zigomo. Le scorre lungo la guancia e si ferma sotto il mento, troppo calda per essere pioggia. Solo quando la vista le si appanna capisce di stare piangendo grosse e corpose lacrime. Dopo una mezz’ora riesce a ricomporsi. Le altre, di sotto, anche se con minore entusiasmo, continuano a fare festa. Immagina il tepore del salotto, gli occhi umidi delle donne strette sui divani, le dita di Rebecca che si muovono insicure sulla tastiera. Anna torna a guardare la casella di posta elettronica e senza esitare cancella l’ultima mail.
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