A casa della nonna c’era una sola regola: non uscire prima delle quattro. In realtà c’erano molte altre regole ma questa era l’unica che rispettavamo.
«Ci sono persone che sono uscite prima delle quattro e sono morte» diceva nonna per spaventarci, o forse perché una volta era successo davvero, non lo so, di fatto, io e i cugini non ci azzardavamo a mettere il naso fuori dal cancello. Ce ne stavamo nel grande salone, scalzi, con i piedi neri e le mani appiccicose, le imposte socchiuse. Appoggiavamo la fronte ai vetri delle finestre e guardavamo i passanti dagli spiragli delle persiane: stupide gambe o eroici mezzi busti si scomponevano in quelle fessure, noi spalancavamo gli occhi, increduli e ammirati, e aspettavamo l’inesorabile fine.
«Non gridate che le persone dormono!» diceva nonna, venendoci incontro con una ciotola stretta sul fianco, sbattendo con forza la forchetta sui bordi.
«Che fai nonna, facci vedere».
Lei abbassava il recipiente mostrando qualcosa di viscido, arancione, schiumoso.
«È come lo zabaione» diceva.
«È che cos’è lo zabaione».
«Uova e zucchero».
Poi prendeva dei bicchierini dalla credenza e ci faceva colare dentro il liquido.
«Bevete, le uova sono quelle fresche di oggi».
I cugini buttavano giù la poltiglia chiedendone ancora, io avvicinavo il naso al bordo per intuirne l’odore.
«Bevilo che ti fa bene».
«Non lo voglio».
«È buono».
«Mi fa impressione».
Quell’estate ai miei cugini regalarono la Nintendo. Dopo pranzo ci piazzavamo davanti al piccolo televisore rosso, aspettando che la console caricasse Super Mario. Ce ne stavamo in casa ben oltre i quattro rintocchi della campana, incollati allo schermo, stringendo forte i joystick con le mani appiccicose.
«Non gridate che la gente sta dormendo» ma noi urlavamo più forte e saltavano sul divano. Poi saremmo diventati grandi o avremmo pensato di esserlo.
«Basta, uscite adesso, se state ancora davanti a quel coso diventate tre scemi».
«Venite a giocare a nascondino» ci gridano dalla piazza.
Un ragazzino ha già il braccio sul portone della chiesa, si gira a guardarci e appoggia la testa al gomito.
«Conto fino a cento».
Corro verso la scalinata che sale alle case sulla montagna, cerco una nicchia o un pertugio, «settantuno, settantadue, settantatre», mi arrampico su per una roccia «ottantasei, ottantasette», mi infilo in un grosso tubo di cemento, «novantotto, novantanove», respiro. Mi accovaccio a terra senza vedere il rivolo d’acqua che scorre al centro del tubo, mi bagno i pantaloncini. Non sento più alcun rumore, non riesco a scorgere nessuno. Gli occhi si abituano alle ombre.
L’acqua scivola in fondo al tubo, gocciola, si infila negli interstizi, gocciola. Appoggio le ginocchia, bagno anche le scarpe. Striscio tenendo la testa bassa, senza vedere dove sto appoggiando le mani. Seguo il rumore dell’acqua, gocciolo anche io.
Si è fatto scuro.
Il labirinto è un su e giù di cunicoli che si intrecciano e scavano la terra, vicoli ciechi, pareti umide. I muri si alzano e si abbassano, mi confondo, non riconosco la strada né i cancelli né i sassi e non so come tornare a casa.
Quanto tempo è passato, un minuto? Dieci? Un’ora o un giorno? Mi staranno cercando?
Entro nella stanza e sono a scuola, la maestra mi chiama alla lavagna ma io non ho fatto i compiti e adesso vedrà che sono stupida e i miei compagni rideranno e i miei genitori saranno tristi e delusi e stanchi.
Le paure sono gallerie che svuotano le montagne, schiacciano il cranio e risucchiano lo stomaco, i ponti sono abissi verticali che rallentano i battiti.
Davanti al portone non c’è nessuno ad aspettarmi.
Non ho ricevuto quella chiamata, non ho ricevuto quella lettera, non ho ricevuto quel messaggio.
Ci dispiace, lei non è stata selezionata.
Lei non è all’altezza.
Non è abbastanza.
Ci dispiace, non c’è più niente da fare.
Scendo ancora più giù.
Il buio è la luce al neon di una sala d’aspetto o di una sala operatoria o forse di un obitorio.
Il freddo è il tremore bollente dei muscoli che si contraggono per la mancanza o la solitudine o forse per il dimenticare.
Fino a dove si può scendere?
Quanto tempo è passato, un minuto? Dieci? Un’ora o un giorno? Qualcuno sentirà la mia mancanza? Voglio uscire.
Poi da qualche parte ecco quel tintinnio metallico, lo riconosco ma non so dargli un nome, lo seguo, mi avvicino, mi allontano, lo trovo un’altra volta. Mia nonna è sulla porta, una ciotola stretta sul fianco, sbatte forte la forchetta sui bordi.
«È come lo zabaione».
Entro nella stanza, mia madre taglia piccoli spicchi di mela che appoggia accanto al mio piatto. A tavola mio padre gioca a scopa e bussa sulle carte invece di spaccare il mazzo.
«Dai babbo, alza le carte!».
Seguo la strada di casa: una cassetta registrata, un quaderno con un dinosauro sulla copertina, sandali marroni, il termos blu e giallo sotto l’ombrellone, il braciere sotto al tavolo, la moka per il caffè. E ancora: i fagioli secchi per le cartelle della tombola, il treno delle 7.54, tre squilli del citofono, le birre sul tettuccio della macchina, mio marito che sgonfia la pancia mettendo un dito nell’ombelico.
«Mamma, mamma, ti ho trovato!».
Mia figlia sposta la tenda e mi stringe le gambe.
«Non sei brava a nasconderti mamma» dice.
«Una volta mi sono nascosta in un grande tubo di cemento e dopo un’ora mi stavano ancora cercando».
«Ancora, giochiamo ancora mamma».
Vedo una testa affacciarsi, gli occhi non fanno in tempo ad abituarsi alle ombre, io mi sciolgo nel rivolo d’acqua.
Silenzio.
«Non c’è nessuno».
La corsa prosegue su per la scalinata che porta alle case in montagna, i passi sono sempre più piccoli, minuscoli, fino a sparire.
«Corri», riconosco la voce di mio cugino.
Con un salto esco dal cilindro di cemento e corro, corro senza guardare indietro, corro dimenticando che sono lenta e goffa e impacciata, corro con i pantaloncini umidi e le scarpe sporche di fango, le gambe sono lunghissime, ogni passo si distende in una danza, sono un cervo, uno stambecco, sono uno struzzo, «bomba libera tutti», sono allodola, serpente, sono un topo, «ci hai salvati tutti!», respiro.
Un cerchio di ragazzini mi si stringe attorno. Abbraccio qualcuno, squittisco, sibilo, trillo, fischio.
«Tornate a casa, vi stiamo aspettando per cenare, veloci», dice nonna.
Io e i cugini attraversiamo la piazza con un soffio.
«Tornate a giocare domani».
«Forse, dopo le quattro».
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