di Antonio Casto
Tedesconi, americanoni, inglesoni, austriaconi, francesi meno estesi ma altrettanto prestanti. Tutti tassativamente sopra il metro e ottantacinque e sotto i ventott’anni. È il regno di quella peluria bionda che attrae Dirk Bogarde e che solo nel Veneto, per qualche motivo, svetta spesso fresca, opaca e stopposa.
Perché mai Venezia questo sabato pomeriggio trabocca così gioiosamente di ragazzoni gaudenti, festanti, di tanta carne esilarante? Tutti sguinzagliati in cerca di spritz a scambiarsi ridendo toccate al pacco (mentre molti omosessualini umbratili del Festival e della Biennale camminano rasente i muri per evitare il sole, magrolini, con le occhiaie, segretamente famelici). Le ragazze, un po’ più sciatte: molti caftani a due o tre colori massimo, un tempo esclusiva delle ultrasessantenni (ma in varianti più colorate e pop), adesso invece vagolano per le calli mosse dalla brezza raccogliendo ogni singola merda di topo. Meno diffusa qui la mise delle adolescenti ormai imperativa nella capitale romana (short e toppino cortissimi e strettissimi, capelli lunghissimi lisciatissimi, unghie demoniache fantasia, borsettina mini anch’essa, smartphone tra gli artigli). Qui c’è più discrezione, uno zombismo meno esasperato. Le turiste di una certa età, tutte Judi Dench en blanc, con dettagli curatissimi, oppure piccole Agnès Varda molto simpatiche.
Faccio mezz’ora a piedi col completo in mano per evitare la troupe che è scesa con lo stesso treno. Ogni tanto il jolly: un roscio illuminato dal sole, con riverberi pazzeschi.
Prima di girare l’angolo dell’albergo un suonatore di strada con la fisarmonica mi accoglie con Strangers in the night, nientemeno. In albergo ancora nessuno. Scendo alla libreria Toletta, dove i libri sono rigorosamente divisi per editore e poi per collana e poi per autore, com’è giusto, e all’ingresso il visitatore è accolto da una parete Adelphi di fulgore quasi insostenibile. Mi allungo alla decantata Libreria Alta, grande errore della giornata: una folla enorme si incanala in un budello con percorso obbligato lungo pareti di orrendi tascabili ammuffiti, impossibili da estrarre perché impilati in colonne ormai fuse. Ci sono perfino commessi a ogni svolta che urlano di non sostare, quindi non si capisce bene come facciano a vendere. L’obiettivo è scattare il maggior numero di foto. La ragazza davanti a me ne fa – giuro – una per passo, anche per aria.
Fuggo e incappo in un bel manifesto dell’ultimo San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. Dove? Palazzo Cini, a 160 metri dall’albergo. È destino, vado subito. Rischio di fare tardi al Lido, devo ancora lavarmi e vestirmi, ma pazienza.
Questa Fondazione Cini è deliziosa, appena quattro o cinque stanzette al piano terra, altrettante sopra. Giù poche cose ottimamente scelte, tutto 1400 italiano. Un Piero di Cosimo con un bambino a metà tra un dentice e un maiale, un della Francesca pallidissimo con teste a uovo (puro De Chirico), e di fronte il miracolo uccelliano (al solito), da starci un’ora a bearsi, inutili le descrizioni: quelle ali, il ritmo tra il drago, l’asta e il cavallo, le campiture perfette come nei peggiori incubi, lei immobile, che forse lo sta appunto sognando; lontanissimo altri che non si accorgono di niente; e sempre quei colori e quelle geometrie da film d’animazione per bambini però sotterraneamente angoscioso.
Al piano di sopra a sorpresa vedute di Roma (ècchice) di Piranesi, a confronto con foto odierne corrispondenti. Spicca un Tempio di Minerva più bello del vero, tutto frondoso e mosso, e sotto la foto del rudere attuale, smozzicato, con davanti un furgone di Mondo Convenienza in doppia fila.
Si esce molto soddisfatti, e a questo punto di corsa in albergo, dove metto il mio completo Oviesse da 100 euro di 10 anni fa (certo la Mostra non merita di più, ma anche volendo non potrei), e poi via al Lido, risucchiati nell’abominio umano. Qui chi riesce a intrufolarsi va in estasi, è convinto di aver svoltato. Quando sbarco, dall’alto del parapetto scattano foto perfino a me (narcissico, spero mi scambino per Garrel).
Prima della proiezione, aperitivo in un giardinetto con tavolini tondi e sedie sparse. Molto bianco. Sul buffet lo spray dell’antizanzare di fianco agli spumanti. Molte chiacchiere amabili, molto PR, molti scambi gentili con persone che non sei sicuro di conoscere. (I retroscena del cinema romano restano quelli della hall di 8½). Il mitico Angelo Barbagallo, supremo elegante sobrio sempre ironicamente nonchalant, si aggira bonario. (L’unica volta che l’ho visto irritato, su un set in ritardo da ore, ha detto «Meglio che vado perché potrei perdere la pazienza» e non si è più visto). Silvio Orlando è seduto in un angolo con due schermi davanti, uno con le premiazioni in corso e l’altro con la partita Napoli-Juventus. Mangia crema di baccalà.
Finalmente è ora di vedere il film (ah già, alla Mostra ci fanno anche i film). Bisogna aspettare le foto col cast (intanto dietro ti chiedono di andare svelto senza guardare, come in libreria), poi si entra nella sala enorme dove le maschere sono irremovibili sul posto a sedere, controllano più volte anche a film iniziato.
Qualcosa è andato storto nella realizzazione, perché con tutta la buona volontà, questo film è purtroppo tanto brutto, con momenti serissimi che scatenano involontaria comicità. Ma non importa: alla fine scatta la standing ovation e il cast accecato dalle luci si alza ringraziando. La figlia del regista si volta verso di me e sono l’unico seduto che non applaude perciò faccio una figuraccia quindi comincio ad applaudire anch’io ma ormai è troppo tardi e lei si rigira disgustata.
Mattina dopo. C’è appena tempo per il Guggenheim (bisogna tornarci sempre, ogni volta che si è a Venezia), e poi in stazione col completo finalmente accartocciato nello zaino. Cerco di situare Allen che fa jogging, Sutherland coi baffi o Katharine Hepburn che piomba in acqua a Campo San Barbara (altre epoche, altri film…). Invece sono arrivati tutti i parassiti influencer a litigarsi gli scatti residui. Ci sono tutti: Giulia De Lellis, una tiktoker che poi posterà “#venzia78” [sic] (con rigoroso sottofondo Coldplay), il famoso coiffeur flamboyant Fashion Style, irriconoscibile perché su Instagram si ritocca le foto oltre il punto di non ritorno. Altro che Hepburn. Qui non bastano neanche tutte le frappe e le nappe di Alida Valli.

Un giovane nostalgico entra in un bar. Il sole a occhio di bue illumina, davanti ai suoi occhi, un paio di baffetti démodé, un capello squadrato, giusto un accenno di ciuffo mozzato da una forbice troppo ingorda.
‘Ma lei è Arbasino. Alberto! Alberto!’ esclama il giovane.
Il signore, bilanciando affettatamente sorpresa e buone maniere, esclama:
‘Ma dice a me? Ma come si permette, mi lasci stare, miserabile rompipalle’.
Al sentire ‘miserabile’, il giovane non ha più dubbi. Il distinto signore abbandona di fretta (una fretta composta da mille rapide buone maniere, s’intende) il bar, il giovane rimane fermo, estasiato da quella visione. A passi lunghi, apre la porta – senza consumare nulla – e compie la sua missione tra le calli veneziane.
E’ pazzo, per nostra fortuna. Ed è un pazzo nostalgico, di una nostalgia felice per eventi e visioni e periodi felici.
Lo voterei se fosse candidato nel mio comune. Non come i nostalgici che vedo in lista oggi.
Bellissima lettura: contemporanea e nostalgica. Ho 54 anni, ed il mio essere adulto ha combattuto con il mio giovanile dalla prima all’ultima riga.
Grazie Antonio, distinti saluti.
Anche a me, quando sono a Venezia, piace tornare sempre al Guggenheim.